L’aggressione USA alla Siria è tutt’altro che scongiurata. La posta in palio è ben più significativa della motivazione pretestuosa sull’uso di armi chimiche da parte delle autorità siriane che l’amministrazione Obama sta adducendo per giustificare l’aggressione. Le mire geopolitiche imperiali, laddove c’è la disponibilità di ottenere il più possibile, se non tutto, con l’uso della forza, non si fanno certo imbrigliare da accordi diplomatici. Ecco perché alla guerra, prima o poi, Washington arriverà. Vuole arrivarci. La proposta russa di mettere sotto controllo internazionale (con ispettori ONU sul posto) gli arsenali chimici siriani e poi distruggerli (con adesione della Siria alla Convenzione sulle Armi Chimiche, che impedisce agli aderenti produzione e uso) è stata pelosamente accolta a metà settembre dalla Casa Bianca che, nei limiti che contiene, vede spiragli di opportunistiche manovre. Il punto delicato del ricorso al Capitolo VII della Carta dell’ONU –che prevede l’uso della forza– in caso Damasco non rispetti i termini dell’accordo, resta un’opzione plausibile ed automatica per Washington, non per Mosca che ha a più riprese sottolineato come non rientri nell’accordo.
Accodati a Washington, in prima linea Francia e Gran Bretagna, favorevoli all’opzione militare in caso della minima mancata attuazione dell’accordo. C’è anche l’ineffabile segretario generale dell’ONU come cheerleader di complemento. Ban Ki-Moon, infatti, ha parlato di «prove schiaccianti» sull’uso di armi chimiche su larga scala contro i civili nell’attacco del 21 agosto nel sobborgo di Damasco, al Ghouta, ed ha accusato il presidente siriano Assad di «crimini contro l’umanità e di grave violazione del diritto internazionale». Lo ha fatto prima che il gruppo di ispettori ONU presentasse il proprio rapporto (16 settembre). Un rapporto che, quando poi è giunto, ad una lettura attenta desta perplessità sulle risultanze, visti i tempi (meno di otto ore complessive in tre quartieri diversi) e le modalità (zone dell’inchiesta, per ammissione degli stessi ispettori, precedentemente manomesse; resti di missili di non accertabile provenienza in parte ritrovati –o fatti ritrovare?– sul posto, in parte addirittura portati a mano dai “ribelli”, resti presuntivamente ancora contaminati dal Sarin, il gas indicato nel rapporto, ma che lasciavano in vita chi li trasportava; analisi della presenza di gas effettuati non sui corpi o i vestiti degli uccisi, come sarebbe stato scientificamente corretto, ma su campioni di terra indicati dai “ribelli” e su prelievi e sintomatologie di sopravvissuti; indicazione di reperti e selezione delle testimonianze operate da un capozona delle forze di opposizione locali che ha ‘preso in custodia’ la missione).
Questi ispettori, peraltro già in Siria, invitati dal governo di Assad per investigare su tutta una serie di attacchi chimici effettuati con ogni evidenza dai “ribelli”, quando si è diffusa la notizia della strage di Ghouta sono stati sollecitati dal governo di Damasco a recarsi il più presto possibile sul posto. Nel loro rapporto alla fine asseriscono solo che quel 21 agosto, nel su indicato sobborgo di Damasco, sono state usate armi chimiche, forse non il Sarin che pure viene indicato. Nessuna delle parti, però, è indicata come responsabile. Eppure la Casa Bianca ha continuato a puntare l’indice sulle autorità siriane. È forte la sensazione che a Washington si voglia replicare, in modo peraltro poco originale, la farsa delle ispezioni ONU sulle supposte armi di distruzione di massa dell’Iraq di Saddam Hussein e che l’amministrazione Obama e i suoi alleati stiano lavorando per politicizzare le indagini delle Nazioni Unite e giustificare un attacco militare alla Siria.
Questo perché, dopo quasi tre anni di guerra alqaedica contro la Siria, dove si è ripetuto sotto molteplici aspetti il modulo già sperimentato in Libia dell’asse Al Qaeda – petromonarchie del Golfo (Qatar, Arabia Saudita) – potenze ‘occidentali’ (con gli Stati Uniti in regìa), i cosiddetti “ribelli” stanno subendo un rovescio dopo l’altro e non riescono a venire a capo della resistenza delle forze militari siriane, delle sue autorità legittime e della stragrande maggioranza del popolo che le sostiene. Inaccettabile per emirati oscurantisti del Golfo e cancellerie euroatlantiche che scalpitano per riscrivere la carta regionale. Chi per acquisire qualcosa, chi per obbligo di servaggio (es. Italia), comunque in scia di chi detta tempi e modi: gli Stati Uniti.
Le “prove” USA contro la Siria
Ben prima di Ban Ki-Moon, di Hollande, di Cameron, di Letta (che, a nome dell’Italia, ha firmato, con altri 10 paesi del G20, il bellicoso testo USA che dava per scontata la responsabilità di Assad senza alcuna effettiva prova), a Washington da subito lo avevano dichiarato che quello del 21 agosto, in un’area della periferia di Damasco, era un attacco chimico ordinato da Assad. Nonostante questa accusa pregiudiziale si sia andata sgretolando con il trascorrere dei giorni, questa sicumera non è mai venuta meno. Anzi. Per Obama, quanto accaduto «minaccia gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti». Riecheggiano i ricordi della seconda guerra del Golfo, di quei primi giorni del febbraio 2003, quando il segretario di Stato USA, Colin Powell, mostrava al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con molta teatralità una fiala contenente una polvere bianca (antrace) e, su un grande schermo, immagini satellitari, grafici e foto di inesistenti unità mobili per la produzione di armi chimiche e biologiche, di cui l’Iraq sarebbe stato in possesso. Tuonava il primo ministro britannico, Tony Blair: Saddam non solo aveva quelle armi, ma aveva già predisposto piani per usarle ed era in grado di attivarle «in 45 minuti». Quelle armi di distruzione di massa non si trovarono e nemmeno i programmi per svilupparle. Nel febbraio 2005, Powell chiese scusa al Consiglio di Sicurezza, la Casa Bianca fece altrettanto, dicendo di essere stati fuorviati dai rapporti d’intelligence. Nessuno ha chiesto il conto per questo ennesimo crimine di una amministrazione USA. Sarà per questo che oggi il Segretario di Stato USA, John Kerry, non si risparmia nel dire che le informazioni raccolte sono solide e che «è in gioco la credibilità e la sicurezza degli Stati Uniti»?
Sul “casus belli” del momento addotto dall’amministrazione statunitense per il suo ennesimo intervento imperialista, ci limitiamo a segnalare, in sintesi, qualcosina:
– Il 29 agosto, all’Associated Press (AP), i “ribelli” siriani del sobborgo di Ghouta a
Damasco ammettono: le armi chimiche ci sono state fornite dall’Arabia Saudita e le abbiamo usate noi. Al giornalista dell’AP, Dale Gavlak, corrispondente dal Medio Oriente da due decenni anche per BBC e NPR, i miliziani sponsorizzati dall’Occidente e dalle petromonarchie del Golfo, riconoscono che l’ “incidente” del 21 agosto è dipeso da una gestione impropria di alcuni combattenti delle armi chimiche, il che ha scatenato «un’esplosione per errore». Ci sarà chi, successivamente, parlerà non di «errore» ma di volontarietà, per fornire agli Stati Uniti in primis il ricercato pretesto, taluni attribuendo un discreto ruolo attivo nella montatura di questa “false flag”, operazione sotto falsa bandiera, di Stati Uniti ed Israele.
– Gwyn Winfiled, esperto nel campo delle armi non convenzionali, intervistato da Repubblica (22 agosto): «L’attacco con agenti tossici ieri in Siria sembra avere tutte le caratteristiche di un nuovo incidente del Tonchino: un “casus belli” creato ad arte per giustificare un’escalation militare delle potenze straniere, come quello che nel ’64 autorizzò l’intervento americano in Vietnam». Sulle responsabilità delle autorità siriane, Winfiled “è scettico”: «Come non esserlo? È difficile credere che il regime di Assad lanci un’offensiva del genere in simultanea con l’arrivo a Damasco degli ispettori ONU incaricati delle indagini sulle armi chimiche. Come in ogni omicidio, l’investigatore dovrebbe chiedersi: cui prodest? Non giova certo al regime, che in ogni caso verrà incolpato».
– Frank Gardner, corrispondente per la sicurezza della BBC, si chiede (21 agosto): «Perché il governo di Assad, che ha recentemente riconquistato terreno ai ribelli, effettuerebbe un attacco chimico, mentre gli ispettori delle Nazioni Unite sono nel Paese?».
– Carla Del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale e relatrice speciale della commissione d’indagine sulla violazione dei diritti umani in Siria, ripropone ciò che aveva avuto a dichiarare in un’intervista alla Radio Svizzera Italiana il 6 maggio scorso. Del Ponte parlava già allora di «prove circostanziali» che ad utilizzare armi chimiche in Siria fossero gli insorti e non le autorità governative. I “ribelli” non sono infatti nuovi all’uso di armi chimiche e diversi di loro sono stati arrestati in Turchia ed Iraq nell’atto di introdurre in Siria gas Sarin e armi chimiche. Miliziani di al Nusra, il ramo siriano di al Qaeda, hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche in cui ne rivendicano il possesso e prodotto numerosi video in cui le mostrano e ne annunciano l’utilizzo. In uno di questi, sono mostrati dei contenitori con sostanze della società chimica turca Tekkim; dei conigli vengono quindi uccisi con quei prodotti e si minacciano i siriani che non sostengono l’insurrezione di fare la stessa fine.
Eppure, chi ha dato credito alle parole del presidente siriano Bashar Hafiz al-Assad rilasciate a “Le Figaro” il 2 settembre («abbiamo sfidato gli Stati Uniti e la Francia a portare una sola prova. Obama e Hollande ne sono stati incapaci, anche davanti ai loro popoli»)? Chi a quelle, a distanza di poche ore, di Sergej Viktorovič Lavrov? Il ministro degli Esteri russo così bollava l’aleatorietà delle supposte “prove” USA: «Ci hanno mostrato alcuni materiali che non contengono nulla di concreto e che non ci convincono. Non ci sono né mappe geografiche né nomi. Inoltre ci sono molte incongruenze, restano moltissimi dubbi (…). Non ci sono fatti, ma solo e semplicemente dichiarazioni che loro sanno per certo. E quando voi chiedete delle conferme più dettagliate», proseguiva Lavrov, «replicano che è tutto segreto e che per questo non possono farcele vedere».
L’aggressione alla Siria non è quindi scongiurata. Immemore di una lunga tradizione di amministrazioni USA che hanno avallato di peggio e praticato peggio (da Hiroshima al Vietnam, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Serbia a Falluja alla Libia, per non ricordare ‘altro’) di quanto senza fondamento si imputa oggi alle autorità siriane, ormai da anni, in continuità con questa tradizione, l’attuale amministrazione del premio Nobel per la Pace, Barack Obama, a fini giustificazionisti è impegnata allo spasmo a reiterare illazioni che spaccia per prove e a preparare il terreno per l’ennesima mattanza umanitaria.
Sull’accordo tra USA e Russia aleggiano quindi, da parte di un contraente e di subalterni in scia, evidenti minacce e propensioni a cercare un pretesto per colpire, a quel punto, senza “se” e senza “ma” e con l’obbligo ‘morale’ di dar vita ad una larga coalizione internazionale in tal senso. Un atteggiamento che sembra suggerire agli oppositori di Damasco (gli alqaedici innanzitutto) che da loro ci si aspetta una nuova provocazione tipo quella del 21 agosto.
L’intento dell’amministrazione Obama, che, nella sua ossessiva reiterazione di accuse senza prova, è arrivata addirittura a sostenere che Assad è una «minaccia per la sicurezza mondiale», è quello di guadagnare un po’ di tempo dando parvenza di propensione ad una soluzione diplomatica. Soluzione, questa, che oltre a salvaguardare l’immagine degli USA, si rivelerebbe estremamente utile per scaricare al momento opportuno le responsabilità sulla controparte, aggirare difficoltà interne di consenso, allargare il fronte di chi militarmente parteciperà al conflitto arrivando ad ottenere un qualche avallo formale dell’ONU. La Casa Bianca ha insomma iniziato una partita a scacchi per arrivare alla guerra nelle migliori condizioni possibili. Questione di tempo, quindi. L’intervento in Siria, del resto, presenta per Washington altissimi rischi di rovesciarsi nel contrario di una guerra lampo territorialmente circoscritta. Gli Stati Uniti non intendono ritrovarsi da soli in una guerra che davvero potrebbe allargarsi quantomeno su scala regionale e con tempi lunghi ed indeterminabili. Vogliono piuttosto che a sostenere questi oneri (finanziari e militari) siano altri Stati, il maggior numero possibile. Questo per servirsene nel perseguire i propri obiettivi strategici (nell’ordine: Siria, Libano, Iran) di avvicinamento minaccioso a potenze come Russia e soprattutto Cina, allo stesso tempo inchiodando a spese ‘improduttive’ le finanze di paesi subalterni del campo ‘occidentale’, già nella morsa della recessione indotta dagli assurdi vincoli dell’Unione Europea, e riaffermando la propria egemonia commerciale ed economica nell’area euroatlantica.
La proposta diplomatica russa, che in tutta evidenza ha mirato a frenare la guerra, presenta delle debolezze e rischia di concorrere, suo malgrado, a scaricare sulla Siria la responsabilità di un fallimento della soluzione “negoziale”. Due sono i punti decisivi che risultano accantonati: a) l’onere per Washington di prove con riscontro nelle sue accuse a Damasco; b) gli stretti rapporti che non solo gli Stati Uniti hanno –in termini di forniture d’armi (anche chimiche), di finanziamenti e di sostegno logistico– con le bande terroristiche alqaediche & affini che operano in Siria contro il popolo ed il suo legittimo governo.
La proposta di Mosca è invece stata assunta come premessa ad una risoluzione che prepari il terreno per l’attacco. Già la Francia del “socialista” Hollande, che spinge per la guerra nella speranza di trarre benefici dal suo lealismo pur subalterno all’alleato/padrone USA, ha tentato una prima bozza di risoluzione all’ONU che prevede la condanna formale dell’attacco del 21 agosto scorso attribuito alle autorità siriane, un deferimento di Assad alla Corte Penale Internazionale ed una serie di conseguenze per eventuali violazioni dei termini previsti dalla risoluzione. Oltre, ovviamente, alla tutela internazionale dell’arsenale chimico siriano. Una posizione subito stigmatizzata dal ministro degli esteri russo, che dà però il senso della “soluzione diplomatica” ricercata dalla Casa Bianca e dai suoi ascari ‘atlantici’: una ammissione di colpa ed una resa senza condizioni. Questa, per Washington e sodali, sarebbe la via diplomatica per scongiurare la guerra. Si parla di mediazione, volendo tener conto della reazione di Stati come la Russia, ma è chiaro che se i presupposti sono questi, quale mediazione potrà mai uscirne? Ci sarà un vincitore ed uno sconfitto.
Francesco Labonia
(n. 34 – settembre / ottobre 2013)