L’unica possibilità che il «governo del cambiamento» ha per ‘cambiare’ davvero è la ricalibratura della collocazione dell’Italia negli equilibri internazionali, particolarmente nella ‘sfera’ euro-atlantica. Questo convincimento –riguardo il governo Conte– è diffuso nell’area cosiddetta sovranista. Si tratterebbe, secondo questo convincimento, di allinearsi più strettamente a Washington, che da almeno un decennio è in contrasto innanzitutto geopolitico, e di conseguenza anche commerciale, con Berlino.

L’Italia, sinora, è stata ossequiosa con entrambi: nei confronti dell’Europa a trazione tedesca sul piano economico-finanziario (Unione Europea) e nei confronti degli Stati Uniti sul piano politico-militare (NATO). Ovviamente questo è da leggere con elasticità perché gli Stati Uniti, in maniera significativa dal secondo dopoguerra, attraverso le loro grandi imprese, i fondi pensioni, le banche d’affari, le agenzie di rating non hanno mai smesso di interferire ed esercitare in Italia la loro influenza anche economico-finanziaria.

Si sostiene, in nome di un preteso ‘realismo’, che è bene aver intanto trovato sostegno alla Casa Bianca in funzione anti-tedesca (come se, da molti decenni a questa parte, l’Italia non fosse già legata, subalterna a multiplo filo, a Washington) tanto, poi –dicono alcuni, non tutti– ci si svincolerà anche dagli USA. Così certo sedicente ‘sovranismo’ guarda sfacciatamente a Trump invocandone (addirittura in nome degli storici ‘legami’ transatlantici) l’aiuto/intervento contro la Germania.

Vien da sé che questo assunto induce a vedere come principale il problema Germania che impone l’austerity tramite l’Unione Europea (curando capitalisticamente i propri interessi) e a porre come secondario –ma solo pochissimi lo pongono– il ‘nodo’ pluridecennale rappresentato dagli USA. Stati Uniti peraltro responsabili di averci fatto finire nella gabbia del combinato UE-euro, costruzione alla quale, dal secondo dopoguerra, hanno lavorato le diverse amministrazioni statunitensi per meglio imporre il loro ‘modello’ e dominio.

Vien da chiedersi come si possa immaginare, nella concreta situazione italiana, che prima ci si liberi da un dominio in una certa ‘sfera’ e dopo ci si liberi da un altro dominio in un’altra ‘sfera’, che ci sia un livello di sudditanza più grave dell’altro, che ci si debba emancipare dalla sfera economico-finanziaria (cioè dalla UE) prima e addirittura da quella politico-militare (cioè dagli USA) in un momento differito, laddove è il campo della politica a dover avere la primazia e ad orientare complessivamente in una direzione o in un’altra. 

Vien da chiedersi come si possa immaginare una forza politica per la sovranità e l’indipendenza candidata al governo di questo Paese che non sia subito chiara nei termini della critica politica, delle rivendicazioni e della prospettiva da perseguire. Come si possa essere omissivi sulle cause della dipendenza ed essere compiacenti con una ‘controparte’. Infatti, come comportarsi su tutta una serie di questioni, di politica interna ed estera, che dovessero riguardare gli Stati Uniti? Si farebbe finta di niente o si sarebbe compiacenti pur di non scontentare l’alleato ‘congiunturale’? Il presunto realismo di combattere un nemico per volta regge solo sul piano astratto, ma affonderebbe nelle contraddizioni della pratica politica, a meno di non essere favorevoli ad un ‘sovranismo’ atlantico, che si intenda cioè, per i motivi che siano, rinsaldare il dominio statunitense sul nostro Paese. 

Si tratterebbe di un ‘sovranismo’ contoterzista, nazionalmente non sovrano. Non si dica nemmeno che quello eurounionista è il pericolo più grave e più rischioso per la democrazia e per la tenuta sociale dell’Italia. Il dominio tedesco si esplica pesantemente tramite le politiche anche monetarie europee, ma la pervasività del dominio statunitense è ben più insidiosa e detestabile per il suo storico radicamento a tutto campo politico e culturale. Peraltro gli Stati Uniti, se volessero, potrebbero far saltare quando vogliono il dominio tedesco rompendo la struttura della UE da essi stessi costruita e l’Italia sarebbe tra i primi ad uscire, proprio perché in orbita atlantica. Ciò (ancora) non avviene perché il ridimensionamento della Germania, stante la compagine di Paesi che gli gravitano intorno, non si risolverebbe con la fuoriuscita di alcuni Paesi dalla UE. Per ora la linea d’indirizzo atlantica (+Europa federale) è quella di andare a controbilanciarla dall’interno per ridimensionarla, se non logorarla, e allo stesso tempo delimitarla (il conflitto in Ucraina serve a tale scopo, ad erigere di fatto un muro di ‘contenimento’ alla tradizionale spinta espansiva commerciale tedesca verso est, direzione Mosca e Pechino). Che si tratti di partiti all’opposizione o di governo, non è in tal senso singolare –la dice anzi lunga– la tempistica del cambio di rotta delle destre europee da una rivendicazione ‘sovranista’ (con tutti i limiti e le contraddizioni ‘interne’, di natura storica e politica, non analizzabili adesso) ad una prospettiva alter-europeista atlantica, come andiamo a vedere parlando di Bannon.

Steve Bannon, giornalista, produttore cinematografico ed ex stratega politico della campagna elettorale di Donald Trump nel 2016, ha messo in piedi l’«associazione», il «club» “The Movement” che, in sintonia con le linee di indirizzo della Casa Bianca, si propone di fornire consulenze di comunicazione, sondaggi, logistica elettorale e fondi, aggregando formazioni di estrema destra in giro per l’Europa. In Italia, che Bannon individua come «centro politico» e «laboratorio» del progetto, hanno aderito, a settembre, la Lega e (nella cornice della sua festa annuale “Atreju”, coerentemente con il tema “Europa contro Europa”) Fratelli d’Italia. Non è casuale che sia il FPÖ austriaco (al governo) sia la germanica Alternative für Deutschland (all’opposizione) abbiano deciso di non aderire. Obiettivo politico di “The Movement” è l’affermazione di queste destre filo-USA alle elezioni europee del maggio 2019 per ridimensionare il ‘peso’ politico della Germania nell’Unione Europea. Si mira a riscrivere gli assetti del Parlamento Europeo e, con modalità ancora non chiarite, costruire una diversa Commissione Europea più in sintonia con l’attuale amministrazione statunitense. In questo, contrapponendosi a ‘liberal’ e sinistre europee desiderosi di ribadire analoghi rapporti di sudditanza con la controparte di Trump negli States, cioè il Partito Democratico. Il risultato sperato dalle frazioni di classe dominante statunitense comunque non cambia ed è convergente: «America First», «make America great again» per dirla con l’ultimo tenutario della Casa Bianca. A fronte dell’emersione di nuovi attori internazionali e di potenze esistenti in crescita, Bannon ripropone i classici schemi egemonici del pensiero geopolitico statunitense, si fa portavoce della volontà di riaffermazione degli USA nel suo preteso ruolo di guida su scala mondiale (a partire dal continente europeo dove l’Unione Europea a trazione tedesca non è assolutamente gradita), addita i suoi nemici (Cina, Iran, Islam sciita in particolare, Turchia –nonostante sia parte della NATO– per il suo volersi porre a capo di una comunità di nazioni affini assumendo il ruolo di guida del mondo islamico sunnita, Russia pur con ambiguità di merito, ecc.).

Lo stato dei rapporti tra Stati Uniti e Germania è il prodotto di una genesi storica. La prospettiva di un sistema europeo unito è stata una costruzione USA, avviata all’indomani del secondo conflitto mondiale con il Piano Marshall/NATO e dispiegatasi nei decenni, con fasi apicali, attraverso la Ceca, l’Euratom, la fallita Ced (Comunità Europea di Difesa), la Cee/Mec, sino all’attuale Unione Europea. Obiettivo: ancorare i Paesi del continente al proprio carro, con un’accelerazione (SME, 1979) già prima che cadesse il Muro di Berlino (1989) e si sciogliesse l’URSS (1991). La minaccia percepita come principale rimaneva quella della Germania unita nel cuore dell’Europa. Con motivazioni e finalità diverse Casa Bianca ed Eliseo condivisero la stessa inquietudine e pensarono di inglobare la rinascente potenza germanica in una costruenda Unione Europea. Per allettarne l’ingresso, le furono prospettati i vantaggi commerciali che avrebbe avuto, nei confronti dei Paesi concorrenti, dall’introduzione di una moneta unica tarata sul marco tedesco, dal correlato impianto vincolistico di un’unione europea, passando per modalità di computo del debito pubblico (di fatto non consentite agli altri Paesi membri) tali da evitare, contabilmente, di far salire il rapporto debito/Pil della Germania al pari dei Paesi del sud Europa da far diventare ‘viziosi’.

La rendita di posizione germanica maturata nel tempo ha prodotto due visioni europeiste sempre più contrastanti: da un lato la UE come organismo inter-governativo a trazione egemonica economico-monetaria germanica (assicurata durevolmente tramite un sistema debitorio vincolistico insolvibile di stampo fondomentarista e un ridisegno delle filiere produttive sotto l’egemonia germanica) in un rapporto (ineguale) tra Stati con progressive cessioni di sovranità, a divaricare i vantaggi per la Germania (e Paesi satelliti) a detrimento dei Paesi del Sud. Il limite dei disegni di potenza di Berlino sta nella sua debolezza sul piano militare, e dunque geostrategico.

Dall’altro la prospettiva degli USE (Stati Uniti d’Europa) gradita a Washington e perseguita dai federalisti europei, epigoni dell’atlantista Altiero Spinelli, fautori di uno Stato federale sovraordinato agli Stati nazionali (con ‘dentro’ una ridimensionata Germania, quindi) a direzione politica centralizzata nei settori strategici (politica estera e militare, politica economica, sociale, fiscale) con svuotamento delle funzioni fondamentali di ogni Stato (cui lasciare mansioni secondarie e subalterne di tipo amministrativo-poliziesco) ovviamente a trazione atlantica, cioè statunitense.

Queste due visioni d’Europa (le altre declinazioni alter-europeiste oniriche sono fuffa che, consapevolmente o meno, portano acqua più al secondo che al primo schieramento), centrate rispettivamente sulla Germania e sugli Stati Uniti, condividono solo una cosa: l’avversione verso il loro comune e massimo nemico, l’emersione possibile di Stati centrati sulla difesa della sovranità e dell’indipendenza nazionale, ancor più temibili se fautori di un modello di società alternativo a quello capitalistico comunque declinato.

Non ci si può schierare, quindi, con nessuna delle due parti. Si può e si deve ragionare su calibrate ed intelligenti modalità di contrasto, su contenuti e tempistiche, senza propendere per gli uni o per gli altri, con una visione che sappia distinguere fra una prospettiva immediata ed una di più lungo termine.

Osservando la Storia, peraltro, la condizione di subire un con/dominio USA/Germania, mutando quel che c’è da mutare, ha dei precedenti interessanti. Lenin e la dirigenza bolscevica, pur nel quadro di una accesa dialettica interna, comunque si mossero proprio non schiacciandosi su nessuna delle due componenti imperialiste in lotta tra loro ma, perseguendo la propria ‘linea’, giostrarono nello scontro tra blocchi per perseguire l’obiettivo del rovesciamento dello zarismo e la rivoluzione in Russia. Ancora. Durante la guerra fredda, l’esistenza stessa del duopolio conflittuale diede (anche) all’Italia l’opportunità di alcuni margini di manovra. Il sistema politico/ideologico era quello che era e purtuttavia dei risultati furono raggiunti. 

Lo scontro tra Stati Uniti e Germania che connota il nostro tempo e l’area geostrategica di cui l’Italia è parte offrono delle opportunità da non perdere senza mettersi in una scia subalterna dell’uno o dell’altro dominante. Tra l’altro non si dimentichi che il combinato UE-euro è il riadattamento sul continente europeo del “Washington consensus” di latinoamericana memoria. 

È interesse dell’Italia che emergano il più possibile chiare le frizioni, che si squarcino i veli delle Grandi Narrazioni eurounioniste ed euroatlantiche, che crescano indignazione e volontà di partecipazione (militanza) politica. L’emancipazione dai vincoli dei Trattati europei e dalla moneta unica implica una rescissione delle politiche atlantiste, e viceversa. In altri termini è necessaria recuperare un’indipendenza anche di manovra e di prospettiva dell’economia italiana nello scenario globale, in quanto ridisegnare, ad esempio, gli orientamenti strategici delle relazioni commerciali non potrà soggiacere alle predominanti linee di interesse geopolitico od economico degli Stati Uniti, beneficiari (non esclusivi) di lunga data dell’ipoteca sulla sovranità limitata italiana.

Questi lunghi e persistenti anni di UE austeritaria a trazione tedesca non devono far dimenticare e rimuovere il significato e la portata del legame di subalternità dell’Italia agli Stati Uniti sul piano della sottomissione ai dogmi neoliberisti. Se indubbiamente la percezione negativa dell’Unione Europea è in via di maggiore diffusione ed interiorizzazione di quella riguardante il ruolo degli Stati Uniti, un’accorta correlazione tra le due sfere della dipendenza è possibile e indispensabile. Il modello TTIP (allo stato fallito) riproposto sotto forma del Trattato CETA (in essere), che vede un ruolo significativo degli Stati Uniti dopo il varo dell’Usmca (Accordo Stati Uniti-Messico-Canada) sostitutivo del Nafta, consolida l’analogia liberista del ‘modello’ sociale atlantico con l’impianto della UE in termini di deregolamentazione economica, primazia dell’impresa, smantellamento dei diritti sociali, cancellazione ad esempio del principio dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione gratuita e universale, eccetera. Senza dimenticare il coinvolgimento, per il tramite peculiare della NATO, in guerre ‘calde’ (Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina) e ‘fredde’ (sanzioni verso la Russia, l’Iran, ecc.) che si sarebbero dovute (per talune, in corso: si dovrebbero) ripudiare non solo ed innanzitutto per la loro natura aggressiva, imperialista, ma anche per le pesanti lesioni agli interessi economici e strategici dell’Italia. 

Un punto fermo, quindi: la rivendicazione credibile di un progetto di nuova società italiana passa per le vie dell’indipendenza nazionale, del non allineamento, dell’internazionalismo solidale anche con Stati sovrani.

Indipendenza
(n. 45 – novembre/dicembre 2018)