Era data per scontata l’ambizione di Mario Draghi a trasferirsi da Palazzo Chigi al Quirinale e pressoché certa la sua elezione. La strada sembrava spianata, inarrestabile, indiscussa, tanto era caldeggiata da potenti forze economiche, finanziarie, geopolitiche esterne al Paese (in primis –per diversi motivi– a Parigi, Bruxelles e Washington) con corrispondenze interne (Confindustria, allettata dalla mangiatoia del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, PNRR, e pressoché tutti i partiti, ‘liberal’, di governo e di opposizione). Insomma, un europeista atlantico di ferro a dirigere tutto dal Colle più alto, questa era la prospettiva! Quella certezza è stata disattesa, quell’ambizione sconfitta. La soluzione, non pienamente condivisa tra le diverse frazioni (filo-francesi, filo-tedesche, filo-USA) di classe sub/dominante, si è trovata sullo status quo con un Mattarella bis e la continuità a Palazzo Chigi del «vile affarista, liquidatore dell’industria pubblica italiana» (Cossiga dixit!), Draghi.

Questo si è reso necessario per preservare l’equilibrio innanzitutto del governo e soprattutto del sistema politico, nel timore che l’inettitudine della classe dirigente e la litigiosità dei partiti per interessi ‘particulari’ potesse portare, in una fase delicatissima come l’attuale, ad una crisi di tenuta più grave, lesiva degli interessi economico/finanziari ‘europei’ (PNRR) ed economico/finanziari/geopolitici atlantici (guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia in Ucraina). Il sistema di potere, puntellato nel gennaio 2022 con Giuliano Amato alla Corte costituzionale e Franco Frattini al Consiglio di Stato, plasticamente evidenzia a quale blocco di interessi sovranazionali le oligarchie italiane facciano riferimento per poter gestire i propri affari e perseguire ambizioni, in antitesi con gli interessi nazionali e delle classi popolari italiane.

Da dopo le Quirinarie, però, la posizione di Draghi si è dimostrata via via più debole, anche perché i partiti della sua maggioranza, principalmente in vista delle politiche del 2023, sono entrati in fibrillazione per offrire ai rispettivi elettorati delle misure sociali e, non in pochi, per recuperare consensi. L’esito delle amministrative di giugno nient’affatto lusinghiero per partiti come il M5S ed anche la Lega, ad esempio, accentueranno le fibrillazioni. A poco più di un anno dal suo insediamento a Palazzo Chigi, lo smalto di cui Draghi si era –ed era stato– ammantato si è molto sbiadito, rivelando una mediocre figura politica, neanche tanto capace come mediatore, la cui forza deriva dal piglio autoritario, direttoriale, da decisore-monarca che lo connota e soprattutto dalla potenza delle sue entrature e dei mentori di potere cui risponde. La ragione principale del suo insediamento dall’alto, senza nemmeno la formalità di un passaggio elettorale (al pari di altri prima di lui, peraltro) tramite i ‘buoni uffici’ di Mattarella, è da rinvenire nella sua funzione di anello di congiunzione tra i partiti e di guida intanto per la transizione di un anno, il 2022, ritenuto cruciale per l’attuazione delle tantissime “riforme” contenute nel PNRR della Commissione Europea e condizionate all’erogazione della magnificata “pioggia di miliardi”, in realtà fondi in larga parte a prestito e vincolati, nella loro ‘elargizione’ scadenzata a quote, al varo delle riforme richieste: un programma spaventosamente antinazionale e antisociale nelle sue linee di fondo, spalmato dal 2021 al 2027, per il quale la crisi della quantomeno dissennata gestione politico-sanitaria del Covid e delle sue varianti si è rivelata una grandiosa opportunità per rendere molto discreto il dispiegamento del Piano con relative implicazioni e conseguenze. Il tutto acuendo la prostrazione economico-sociale di decenni di politiche austeritarie ‘made in UE’. Si pensi in tal senso, come esempio, alla (s)vendita di tutti i servizi pubblici essenziali (Ddl Concorrenza art. 6), ultimi la distribuzione dell’acqua e la messa a gara della compagnia di bandiera Ita Airways, atti –questi ed altri– con i quali Draghi sta adempiendo al suo ruolo di agente liquidatore dell’intero patrimonio pubblico italiano per conto ed interesse di multinazionali, finanza internazionale e Stati economicamente più forti (in primis USA, Germania, Francia). In contrasto peraltro con la Costituzione, servizi pubblici essenziali (sanità, scuola, trasporti, ecc.), fonti energetiche, industrie strategiche, eccetera, in proprietà pubblica demaniale, sono messi nell’impossibilità di essere garantiti dallo Stato italiano. Oltre alle mancate entrate nel bilancio statale dalla gestione di detti servizi, la pubblica amministrazione sarà sempre più costretta, per soddisfare i bisogni della popolazione, ad aumentare le imposte, in un combinato a spirale depressivo-recessiva di contrazione della domanda, compressione economica, cancellazione ulteriore di  posti di lavoro, allargamento del numero di cittadini (già nell’ordine dei milioni) in stato di povertà o, pur lavorando, in prossimità di essa. Uno scollamento delle classi dominanti dagli interessi nazionali e dei partiti di riferimento dal grosso delle rispettive basi elettorali senza precedenti. 

Ora, il precipitare della guerra in Ucraina (in corso da otto anni), per cui alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e al Pentagono lavorano da due-tre decenni, sta comportando l’accentuazione dei vincoli di sudditanza particolarmente per l’Italia e, a diverso grado, per tutti i paesi della UE. Draghi e il suo governo, con l’adesione anche di Fratelli d’Italia, finora opportunisticamente all’opposizione per andare all’incasso alle politiche del 2023 del malessere sociale, sono i più zelanti esecutori dei desiderata d’oltre Atlantico in questo conflitto per procura di cui il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, è una pedina. La volontà USA e dell’anglo-sfera in immediata scia è il ripristino di una nuova Cortina di Ferro che determini innanzitutto una rottura totale delle relazioni politico/commerciali tra Paesi dell’Unione Europea e Russia, quindi un forte ridimensionamento o un’implosione di quest’ultima per poi rivolgere le proprie attenzioni aggressive contro la Cina. Per il primo obiettivo si vuole che la guerra duri il più a lungo possibile (‘tecnica del dissanguamento’ umano, economico-finanziario, politico, in questo caso russo). Del resto, quando si bolla un capo di Stato come “un Hitler”, quando si mira a cancellare ogni traccia della cultura di un Paese scatenando una ‘fobia’ ad ogni livello, quando si esclude di voler avviare qualsiasi negoziato che non sia di resa, quando si inviano armamenti, quando ci si dice convinti e comunque si aspira alla vittoria (Biden-von der Leyen-Borrell-Zelensky dixērunt!), chiaramente si investe sulla guerra e si vuole che, al di là del suo esito, s’incisti per tempi indefiniti in un futuro di inimicizia e ostilità.

Eppure, c’è un altro mondo in Asia, Africa, America latina, non omogeneo e non privo di criticità, interessato a liberarsi da influenze e invasività del campo ‘occidentale’ guerrafondaio e imperialista USA-NATO, un mondo che irrita gli USA e che questi non vogliono che si affranchi. Anche sul continente europeo a fronte di subalterni molto zelanti (l’Italia purtroppo si distingue) ci sono Paesi non affidabili. Al di là di valutazioni critiche e solo in relazione all’aggressività USA, c’è una Germania ondivaga, una Francia non dimentica delle sue ambizioni, una non allineata Ungheria. A fronte di scenari di ridimensionamento e declino, gli USA da tempo stanno intervenendo con l’unica arma principale che hanno, quella militare, per ridisegnare il loro ‘ordine mondiale’. Solo che l’esito –per loro– della vittoria, checché ne pensino gli aedi dell’atlantismo, non sta scritto da nessuna parte. 

L’alternativa di Draghi “o i condizionatori/termosifoni o la pace” ben sintetizza l’ossequio alla volontà di Washington di alimentare il conflitto con le armi e l’odio. Le pressioni USA ai Paesi del suo braccio politico-militare, la NATO, per gli incrementi di spesa per il riarmo non a caso datano dal vertice NATO in Galles (settembre 2014) dopo il colpo di Stato di Euro-Maidan, a Kiev, di oligarchi e neonazisti sostenuti proprio da Washington e Paesi occidentali. Da allora le amministrazioni Obama, Trump e ora Biden hanno sempre insistito sul punto –anche duramente– con gli ‘alleati’. Per i prossimi anni il governo Draghi ha stanziato per gli armamenti cifre enormi, in parte già nel PNRR per la Difesa e la sua filiera industriale. Teniamole a mente quando razioneranno elettricità e gas, penalizzeranno ulteriormente agricoltura e zootecnia, galopperanno inflazione e costo della vita, diverranno insostenibili i prezzi di materie prime e fonti energetiche, aumenteranno i fallimenti aziendali irrobustendo la disoccupazione con percentuali a due cifre, quando diranno che per il lavoro, gli stipendi, i salari, gli edifici scolastici, l’istruzione, la ricerca, la sanità, gli ospedali, i posti letto, l’ambiente non solo non sarà possibile spendere, ma si dovrà ancora ridurre. Si tratta di un combinato di inflazione, recessione, depressione, gravi criticità energetiche, inasprimento dei conflitti geopolitici, inscritto nel divenire degli accadimenti in corso, la cui plasticità potrà forse avere nel Paese –finalmente!– un effetto catartico di ribellione. Comunque farà emergere in tutta la sua irrilevanza qualsiasi discorso di cambiamento sociale, di alternativa di società, che prescinda da una circostanziata, intelligente, effettiva rivendicazione indipendentista italiana di sganciamento dal blocco euro-atlantico guerrafondaio e dal suo modello a trazione iper-neoliberale. Senza questo sganciamento, non c’è alcunché da cui possa scaturire una qualche credibile, possibile scintilla di giustizia e di liberazione sociale. Alla lotta, quindi!

Indipendenza
(n. 52 maggio/giugno 2022)