La fiaba sul “Salvatore della Patria” Mario Draghi, disceso come “Uomo della Provvidenza” in Italy-land «a miracol mostrare», ha assunto tratti surreali. La vulgata racconta della chiamata in tutta fretta del Quirinale per ricomporre –allargandone il perimetro– un quadro politico e governativo sempre più frastagliato, avvalendosi di una figura che per autorevolezza ed entrature potesse interloquire con l’Europa, in relazione soprattutto alla supposta sua generosa “pioggia di miliardi di aiuti”, e traghettare l’Italia fuori dalla pandemia e dallo sprofondamento economico-sociale da questa causato. Ora, più di un anno di chiusure e la forte carenza di sostegni pubblici hanno aggravato (non innescato!) la crisi nel Paese che ha impattato su un tessuto sociale già sfilacciato, ripercuotendosi più pesantemente sulla tenuta di alcuni comparti produttivi (turismo, commercio, ristorazione, ecc.) e sul lavoro dipendente privato e quello precario sui quali la fine del blocco dei licenziamenti infierirà ancora più duramente. Una sofferenza per strati tutt’altro che esigui di popolazione già stremata dalla lunga crisi veicolata dalla disciplina eurounitaria e di cui è riflesso, ad esempio, l’incremento degli indici di povertà assoluta e relativa.

In questo quadro Mattarella è il garante ultimo dell’affidabilità del Paese per variegati ‘cartelli’ di interessi politico-economici sovranazionali e per il perdurare della sua collocazione nel campo geopolitico euro-atlantico, indiscusso indiscutibile e pervasivo a tutti i livelli. Garante “ultimo” Mattarella lo è nel senso dell’ultima istanza decisionale –e del resto non a caso è lì, al Quirinale, che lo stesso Draghi è molto probabile che venga proiettato dopo la parentesi governativa– ed anche in via temporale per la continuità d’azione, nello svolgimento della funzione su indicata, con presidenti che l’hanno preceduto (pensiamo, senza andare più indietro nel tempo, al periodo del doppio mandato di Napolitano). Una condiscendenza assicurata tramite il rispetto formale della Carta Costituzionale, a scapito però della sua sostanza. Una prassi, in questo Paese, pluri-decennale.

L’improvvisazione emergenziale della nomina di Draghi, poi, è assolutamente una fola. ‘Calata’ dall’alto e soprattutto dall’esterno, da tempo era caldeggiata in messianica aspettativa da tutto l’arco dei poteri politici, economici e istituzionali italiani e pompata dall’apparato mediatico-industriale che conta. Si aspettava la fine (ottobre 2019) del suo mandato alla Banca Centrale Europea (BCE) per l’incoronazione, ma il nuovo coronavirus ha sconvolto le tempistiche, prolungando l’esistenza del governo Conte-due che, a quel punto, ha dovuto barcamenarsi nella gestione dell’impatto del Covid e catalizzarne il prevedibile scotto sociale in un Paese che, già prostrato dalle politiche euro-unioniste, si apprestava a scoprire le conseguenze, ancor più pesantemente di prima in termini di gravi carenze e palesi disuguaglianze, dei prescritti euro-tagli anche in campo sanitario.

Il compito di Draghi è quello di riagganciare l’Italia al sistema politico-economico della UE, nel cui direttorio (Germania e Francia) da tempo si discute di una ristrutturazione di medio-lungo periodo del suo meccanismo di funzionamento, con un interesse e inferenze a tutto campo da sempre molto pervasive da oltre Atlantico. Ben prima del diffondersi del virus! Figurarsi adesso, con la pandemia che non rende più sostenibile quell’impasto di ordo e neo liberismo su cui la UE è stata edificata.

Sarebbe riduttivo vedere Draghi solo come regolatore interno della gestione e ripartizione dei fondi europei a beneficio degli appetiti e degli equilibri delle frazioni del capitalismo italiano in netta prevalenza a trazione settentrionale, e addirittura fuorviante considerarlo uno zelante gauleiter delle élite economiche tedesche che, pur divise su ammontare dei fondi e natura delle condizionalità, si sono viste costrette, a fronte della estrema gravità della situazione, ad una sospensione delle restrittive e deflattive politiche europee di bilancio ritenute sacre e inviolabili. Certo, a Berlino e Parigi non molleranno facilmente la morsa a costo di qualche ‘revisione’ e/o ammorbidimento pur di riproporre i rapporti di dominanza e subordinazione. Oggi la posta in palio, soprattutto per la Germania, è salvare la propria industria. Per farlo deve salvare la filiera di piccole e medie imprese di sub-fornitura italiana, particolarmente del nord (Veneto, Emilia…), costruita in decenni di interconnessione con le grandi imprese tedesche in parallelo al progressivo ridimensionamento industriale italiano avviato con l’ingresso nel combinato disposto UE-euro, e che per Berlino non è sostituibile sia per prossimità geografica sia, soprattutto, per la grandissima qualità. Il senso dell’assegnazione all’Italia della quota più consistente del Next Generation Eu (tra prestiti –dunque nuovo debito estero– e fondi perduti sotto strette condizionalità di “riforme” da varare) è tutto qui.

Dove deriverebbero, dunque, la funzione e la ‘forza’ di Draghi ora che ha lasciato la presidenza della BCE? Non certo dalla sua “squadra di governo” con il gruppo di ‘tecnici’ di fiducia ai dicasteri chiave ed i politici di tutte le tendenze (anche i più squalificati) alle poltrone ‘di rappresentanza’, ma dall’essere legatissimo –e non da oggi– ai circoli atlantici. Più che procuratore dei poteri economici mondiali Draghi lo è, molto più prosaicamente, di quelli atlantici. Il che ha sempre alimentato in Germania forti diffidenze, se non aperte ostilità, quando gestiva le politiche della BCE. La sua forza viene dai suoi committenti d’oltre Atlantico, di cui l’attuale tenutario della Casa Bianca, Joe Biden, è espressione. Ed in Germania, dove hanno imparato a conoscerlo come ‘Governatore’ della BCE e ad apprezzarne le capacità di mediatore e negoziatore implacabile, ora sono costretti a tenerlo in considerazione e a farci i conti per la doppia realtà (geo/politica ed economica) che rappresenta: quella atlantica e quella imprenditoriale necessaria per la propria macchina produttiva.

Quindi, altro che improvvisa generosità dei partner europei per il Paese più colpito dalla pandemia! Altro che fermezza e capacità diplomatica di Conte e Gualtieri! Ed altro che figura ‘tecnica’, quella di Draghi che nel suo discorso di presentazione delle linee di governo in Senato ha esplicitato i tre ‘assi’ del suo governo: “europeismo, atlantismo, ambiente” con al centro, come cardine, proprio l’atlantismo. Una dichiarazione tutta politica e nient’affatto tecnica. Con un accento marcato sull’atlantismo. Perché marcare apertamente questa collocazione subalterna dell’Italia acclarata sin dalla nascita della NATO nel 1949? Non è solo ribadire il vincolo transatlantico in tempi di espansionismo politico-commerciale cinese e di rinnovata ostilità geopolitica USA alla Russia, è anche un messaggio per la governance europea: la ricostruzione postpandemica italiana la mettiamo nelle vostre mani, declinatela pure secondo le vostre esigenze e condizioni, ma c’è un prezzo (geo)politico da pagare, e cioè una ridefinizione del sistema europeo di funzionamento su cui Washington vuole avere voce in capitolo. Se per Berlino e Parigi gli ‘aiuti’ sono una parentesi che realizzi un processo d’investimento con un ritorno pro domo propria senza che venga meno l’impianto confederale, per Washinton invece la prospettiva federalista europea è strategica per il ridimensionamento di Germania e Francia che comporterebbe all’interno del proprio campo egemonico. La prima fase è in essere con la stesura governativa del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza; esemplificativa la quota ridicola destinata alla sanità italiana e relative voci di suddivisione delle quote di destinazione, con buona pace delle tante parole sulla sanità pubblica da rilanciare, del ‘prima la salute’, del riequilibrio fra Stato e mercato, eccetera.

Ora, dopo il crollo economico del 2020 non sarà difficile mettere a segno un fisiologico rimbalzo, ma da qui ad uscire dalla crisi infinita iniziata nel 2008 ce ne passa. Lo scotto economico e sociale ulteriore per il Paese è ancora in gran parte da venire. Ed in questo Draghi, più che il salvatore della patria, potrebbe davvero fungere da becchino della sovranità nazionale e popolare italiana.

Indipendenza
(n. 50 – marzo/aprile 2021)