Il bilancio dell’esperienza del governo giallo-verde certifica il sostanziale fallimento del progetto politico del M5S, il quale è riuscito a dilapidare nel giro di un solo anno (quello che intercorre tra le elezioni politiche del 2018 e le elezioni europee del 2019) un enorme patrimonio di consensi: il primo governo Conte è stato infatti percepito da gran parte dell’opinione pubblica come il governo di Salvini e della Lega, a dispetto del fatto che era (ed è) il M5S ad avere il maggior numero di seggi. Non solo: tutto lascia supporre che il secondo governo Conte finirà con l’essere percepito come il governo del PD.

Quali le ragioni di una simile disfatta? 

In primo luogo l’assenza di una linea politica definita sulle questioni fondamentali (UE, politiche economiche, politica estera e altro), scelta dovuta alla volontà di presentarsi come una forza politica post-ideologica. Nel caso del M5S tale pregiudiziale nei fatti ha significato non avere una posizione chiara su nulla di fondamentale, trovando un collante identitario esclusivamente su battaglie secondarie talune anche sbagliate, come ad esempio la riduzione del numero dei parlamentari e in generale le varie rivendicazioni anti-casta (tagli a vitalizi, stipendi dei parlamentari, finanziamento pubblico di partiti e giornali, ecc.). Alla base di queste scelte vi è stata la volontà di non precludersi nessun settore della propria base elettorale, non comprendendo però che la dimensione del partito piglia-tutto può reggere soltanto in una prima fase, quando occorre capitalizzare la protesta e tradurla in voti. Al contrario, quando si governa, è necessario assumere delle posizioni definite e operare delle scelte in virtù di una visione politica chiara e comprensibile. Le scelte operate dal movimento sono state invece dettate per lo più da esigenze tattiche (vedi la subalternità alla Lega su immigrazione e sicurezza) e coperte dall’alibi dell’approvazione della base attraverso lo strumento –a dir poco discutibile– della piattaforma online Rousseau.  

In secondo luogo è emersa l’inadeguatezza politica e culturale della classe politica del movimento, che in alcuni personaggi è risultata addirittura imbarazzante. L’avversione nei confronti della cosiddetta casta si è rivelata qualcosa di più di un boomerang, dal momento che a essere completamente svalutato è stato il principio della competenza, fondamentale in politica e a maggior ragione quando si assumono incarichi di governo, nazionali o locali che siano. Strettamente relazionata con questo atteggiamento è risultata essere la più completa mancanza di cultura e formazione politica, effetto di un’ossessione anti-ideologica che ha finito col degenerare in molti casi nel rifiuto di qualsiasi forma di pensiero politico minimamente strutturato. È così scaturito un misto di rivendicazioni serie (alcune ridimensionate, altre rientrate), di banalità inoffensive e di denunce sterili. 

Detto ciò, nel novero dell’inadeguatezza rientra a pieno titolo l’artefice della crisi di governo, quel Salvini che, al netto dell’essere un abile comunicatore, si è dimostrato assolutamente modesto come dirigente politico e come statista. Al di là della capacità di generare un facile consenso speculando cinicamente sul problema immigrazione, ha espresso una povertà di analisi e di visione d’insieme, oltre che una linea politica confusa e goffa soprattutto quando ha deciso di aprire la crisi (rispondendo alle pressioni dei potentati leghisti del Nord, o imbeccato da qualcuno o forse fidando in approssimativi calcoli politici sul ritorno alle urne) che poi ha cercato maldestramente di ricucire dando le colpe della stessa ad ‘altri’. Ha finito con l’annaspare di fronte alla crisi che aveva aperto, non sapendo in che modo rimediare quando tardivamente ha colto, come l’ultimo sprovveduto in politica, che questa potesse metterlo fuori gioco. Il tutto in una generale ed imbarazzante povertà di linguaggio e di argomenti, tra appelli alla Madonna ed il patetico offrirsi come bersaglio ai ‘cospiratori esterni’ della crisi. Dopo aver costruito il successo su un’immagine di sé volitiva, da “leader” che va per le spicce, che sa quel che fa, che è duro (con i deboli, però), nulla di meglio ha saputo fare che sproloquiare senza posa e senza vergogna tra battute e argomenti di sterile polemica litigiosa, mostrando tutti i limiti di quella stessa immagine. Certo, prendere atto che Salvini è arrivato dove è arrivato, dà la misura dell’inconsistenza politica di tutti gli altri – ‘contraenti’ e avversari.

La possibilità che alle prossime elezioni politiche la Lega capitalizzi il malcontento sociale che dovesse suscitare il governo Conte-bis, sfacciatamente voluto dall’establishment internazionale con le interessate referenze in Italia di figure apicali istituzionali e forze politiche, esiste ma non è scontata. Se va in porto, l’operazione in atto mira a mettere in piedi l’alternativa all’alter-europeismo leghista (spacciato ‘sui’ e ‘dai’ massmedia dominanti per “sovranismo nazionale”) e assicurare la sopravvivenza dell’apparato europeo dominante (il direttorio franco-tedesco). Questa alternativa allo stato attuale non c’è. La si vorrebbe far nascere ‘bruciando’ i due contenitori (M5S e PD) al cui elettorato s’intende attingere liberando il campo per il dopo. In questo modo tornare ad un bipolarismo dove si è contro la parte avversa ma non per una idea alternativa di società, essendo i diversi partiti sul proscenio dentro la logica neoliberale dominante, ossequiosi verso le centrali estere e il trasversale partito interno degli affari, senza quindi capacità progettuale, men che meno di superamento della crisi indotta e incorporata nel meccanismo di funzionamento della UE, avendo come priorità solo delle distinguenti “cosette” da fare. Costruire la propria identità politica in opposizione agli avversari, se aiuta a mascherare la mancanza di idee e sul momento sollecita la militanza, a lungo andare manifesta anche la propria insussistenza.

È possibile che questo governo intercetti l’interesse della Germania,in crisi prolungata, a politiche relativamente espansive in Paesi acquirenti come l’Italia e quindi ad un moderato allentamento dell’austerità comunque non gratuito (richiesta di privatizzazioni, ad esempio) e che il direttorio franco-tedesco consenta l’adozione di qualche provvedimento sociale  caritatevole, anche per contenere un sentire anti-UE che in Italia finora ha trovato espressione nella Lega, ma che un domani potrebbe indirizzarsi verso sponde più serie. Del resto tra direttorio europeo, Commissione Europea e BCE si è palesato che si può allentare il guinzaglio, la disciplina, esistendo meccanismi per salvare l’Euro in fase di crisi, tanto il saldo totale per le classi popolari di questo Paese continuerà ad essere negativo.

In questo contesto Conte si è già rivelato un mediatore e negoziatore abilissimo grazie a capacità acquisite in campo professionale. Con il suo piglio sobrio e giudizioso, ostentatamente responsabile e sicuro, ha ricondotto in un perimetro istituzionale compatibile con i vincoli esterni una delle fasi più complesse della storia repubblicana, dal binomio Lega-M5S a quello attuale di governo prodotto della debolezza di M5S e PD.

In discorsi sulle linee future dell’azione di governo, affastella cose ovvie e banali (cultura del riciclo, valorizzazione dei beni culturali al Sud, ad esempio, spesso “buone intenzioni” di svariati governi senza mai l’accompagno del ‘come’ e dei ‘mezzi’) miste ad altre non raccomandabili (privatizzazioni, autonomia differenziata, ecc.) o parziali e velleitarie visti i margini stretti consentiti dai “vincoli esterni”. Più volte, peraltro, ha tenuto ad escludere un intervento dello Stato disapprovando il «dirigismo economico».

Vi è poi il suo «europeismo critico costruttivamente orientato» (!?) indefinito ed intrinsecamente impotente, preciso nel reiterare le abituali banalità caricaturali sulla sovranità nazionale (le solite prescrittive affermazioni ideologiche neoliberali sull’essere queste –chissà perché– tutte «chiuse e conflittuali») ed il ribadire –sulla scia di Mattarella a fine luglio– che «la nostra politica estera (…) deve rimanere fedele ai due pilastri del rapporto transatlantico [la NATO, ndr] e del rapporto con l’Unione Europea». Omettendo di rilevare la realtà dei fatti, e cioè che quelle linee di politica estera da svariati decenni condizionano in termini negativamente pesanti la vita politica, economica, sociale, culturale (anche) della nostra nazione, del nostro Stato. Un allineamento di sudditanza, insomma, ai desiderata dei due poli dominanti su questa Italia sempre più colonizzata.

Cosa fare dunque rispetto a questo scenario? Può sembrare scontato e banale, ma è di fondamentale importanza fare emergere in tutta la sua evidenza il nesso tra politiche neo-liberiste e austeritarie ed il processo d’integrazione euro-atlantico. Tanto più che una coscienza popolare sta crescendo intorno ad aspettative che si sono proiettate prima sul M5S poi sulla Lega e potrebbero proiettarsi su altro, perché espressione di un malessere e di esigenze reali. Qualunque promessa, fatta da qualsiasi parte politica (che siano le forze che sostengono il nuovo governo giallo-ravanello o le varie destre), di invertire la rotta su economia, politiche sociali, diritti dei lavoratori e dei cittadini si scontra con i vincoli imposti dai Trattati europei ed è destinata pertanto a non trovare alcun riscontro nei fatti. Il che comporta pesanti costi socioeconomici ed anche la distruzione della legittimità democratica dei governi. Come non vedere l’incompatibilità tra democrazia e gabbia UE/euro, il nesso tra instabilità politica (e dramma economico-sociale) e architettura di Maastricht, l’impossibilità di ricorrere a tutti i “normali” strumenti di politica economica –politica di bilancio, politica monetaria e politica del cambio– a maggior ragione in un Paese in profonda crisi economico-sociale come il nostro che avrebbe un disperato bisogno di politiche espansive significative?

La natura strutturalmente liberista e classista dell’UE è infatti il grande rimosso del dibattito politico attuale ed è invece quanto bisogna fare emergere, denunciando al contempo il silenzio o le esitazioni –anche da parte di tanti presunti sovranisti– in merito all’unica prospettiva possibile per chi voglia cambiare lo stato di cose presente: uscita da euro, UE e NATO. Al netto della radicalità di tali obiettivi e alle necessarie riflessioni su come e con quali tempi perseguirli concretamente, la loro assunzione senza se e senza ma diventa una cartina di tornasole per giudicare l’autenticità di qualunque prospettiva politica pretenda di presentarsi come anti-sistemica o anche solo di rottura con l’ordine vigente, a cominciare da quelle di tanti sedicenti “sovranisti”.

Indipendenza
(n. 47 – luglio/agosto 2019)