Maldestro e brutale. Un golpe militare maldestro, quello ‘lampo’ nella notte tra il 15 e il 16 luglio scorso in Turchia, attuato con un dilettantismo quasi ostentato ‘sul campo’, come a voler fallire. È necessario partire da qui, dalla dinamica dei fatti, per cercare di capire fatti e possibili sviluppi.  

Chi lo ha diretto non ha sfruttato il fattore sorpresa, avviandolo intorno alle 21; non si è catturato o ucciso il presidente Erdoğan, né a Marmaris, sul mare Egeo, dove era in vacanza con la famiglia né, quando si era padroni dei cieli, abbattendo l’aereo sul quale volteggiava indisturbato nel nord ovest della Turchia a dirigere la reazione al golpe, con tanto di Gps acceso e quindi di identificativo internazionale riconoscibile; non sono stati esautorati gli Stati maggiori e i responsabili delle forze dell’ordine a paralizzare la catena di comando formale; non sono stati arrestati o colpiti i principali dirigenti del partito del presidente, l’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo); sono stati occupati e poi abbandonati il giornale Hurriyet, l’emittente statale Trt, la tv privata Cnn Turk; sono stati lasciati indisturbati i media pro-Erdoğan che invitavano alla resistenza; non si è palesata una direzione politica, al fianco dei militari golpisti, per esprimere un’alternativa che si facesse carico quantomeno del passaggio di poteri; non c’è stato il sostegno di nessun partito, anzi il golpe è riuscito a unirli tutti, anche quelli di opposizione, attorno ad Erdoğan, nella condanna dello stesso; si è palesato un seguito molto scarso tra i militari (ristretti settori dall’aviazione, l’arma delle forze armate più integrata nell’Alleanza Atlantica, settori ancor più minoritari dell’esercito e pressoché nulla dalla marina), quanto meno nella sua massa d’urto iniziale; la comunicazione è stata lacunosa, strano per ufficiali ben inseriti ed addestrati alle tecniche della NATO. Il proclama laico-kemalista letto dai golpisti prometteva ripristino dei diritti costituzionali e dello stato di diritto, rispetto della laicità violata, sicurezza, per essere smentito da una brutalità gratuita fatta di esecuzioni sommarie, mitragliate e cannonate sui civili (un bagno di sangue in poche ore), bombardamento del Parlamento, coprifuoco e legge marziale. 

Un golpe singolare, avventuristico, ben diverso dai precedenti altri quattro (1960, 1971, 1980 e quello ‘soffice’ del 1997) in neanche sessant’anni, in un Paese, peraltro, in cui l’esercito è una potenza in triplice senso: 1. per qualità e dimensione (secondo nella NATO solo a quello statunitense); 2. in quanto custode, come da tradizione kemalista, della Costituzione e delle istituzioni laiche, il che gli conferisce diritti e ‘privilegi’ particolari; 3. per l’ampia autonomia economica ed il cospicuo budget della difesa non soggetto a nessun controllo parlamentare, con investimenti anche in svariati settori economici. 

Un golpe, inoltre, quanto mai annunciato e dibattuto. Nelle cancellerie internazionali, in ambito NATO, sulla stessa stampa se ne parlava da mesi e il momento previsto era indicato per l’autunno. Non pochi osservatori ritennero un segnale forte in tal senso le dimissioni, nel maggio 2016, del primo ministro Ahmet Davutoglu, al termine di un vertice di partito; una rottura su varie questioni, soprattutto sull’immunità parlamentare e sulla riforma della Costituzione in chiave presidenziale voluta da Erdoğan. Pochi giorni dopo, il MIT, i servizi segreti turchi, lancia l’ennesimo allarme di un colpo di Stato (se ne contano una quindicina solo nei primi sei mesi del 2016). 

Per cogliere il clima che si respira, val la pena citare alcuni articoli tra i tanti possibili della stampa internazionale, di diversa collocazione temporale, di autorevoli firme. Michael Rubin, ex alto funzionario del Pentagono, studioso presso l’American Enterprise Institute, scrive il 21 marzo (marzo!) 2016 sul sito di questo pensatoio (www.aei.org) un articolo dal titolo significativo: “Could there be a coup in Turkey?” (“Potrebbe esserci un colpo di Stato in Turchia?”). Quasi sollecitando i militari turchi in tal senso, esclude che l’amministrazione Obama possa prendere provvedimenti contro i golpisti se questi fossero disposti ad un percorso chiaro per il ripristino della democrazia («especially if they immediately laid out a clear path to the restoration of democracy»). Alcuni giorni prima, due ex ambasciatori statunitensi in Turchia, Mort Abramowitz e Eric Edelman, nell’articolo “Turkey’s Erdoğan must reform or resign” (The Washington Post, 10 marzo 2016), avevano posto un ultimatum a Erdoğan: o si impegnava a varare riforme per una «stabile e democratica Turchia» oppure se ne doveva andare. Dion Nissenbaum, esperto di sicurezza, nel suo “Turkish Military’s Influence Rises Again” (The Wall Street Journal, 15 maggio 2016), mostra di essere ben informato e preconizza un golpe. Pochi giorni dopo che è stato tentato, il 22 luglio, The Washington Post pubblica un editoriale (“Turkey’s coup attempt was unusual, but not for the reasons you might expect”) che occhieggia ad un nuovo golpe e dà indicazioni su come evitare gli errori di quello fallito, invitando ad essere «più pazienti e strategici» e a cogliere l’opportunità di «un’elezione contesa o un’ondata di malcontento popolare». 

I silenzi di Washington 

Il sostegno politico degli Stati Uniti alle autorità turche arriva tardivo –come quello dell’Unione Europea (UE) e delle cancellerie dei Paesi membri– e si evita di condannare il golpe, che mirava a destituire un fondamentale governo alleato, sino a quando non ne sarà evidente il fallimento. Sino a quel momento gli USA

parleranno una sola volta tramite John Kerry, segretario di Stato dell’amministrazione Obama: a colpo di Stato in corso, non esprime solidarietà né parla di democrazia o di rispetto per il legittimo governo, ma dichiara di sperare nella stabilità in Turchia, che mal cela in linguaggio diplomatico l’attesa per l’evolversi degli eventi e il fattivo schierarsi in favore dei golpisti.  

Nella notte del golpe il presidente Recep Tayyip Erdoğan accusa Fethullah Gülen, imam, politologo e magnate turco, leader del movimento Hizmet (“Servizio”), residente negli USA, di essere la mente. Analoghe parole pronuncia il primo ministro, Binali Yildirim, attaccando Washington: accogliere e sostenere Gülen, «leader di un’organizzazione terroristica», è considerato un atto ostile verso la Turchia ed avanza la richiesta (già irricevibile di per sé per una potenza imperiale) di immediata estradizione, senza nemmeno inoltrare una documentazione a riscontro. La durezza ed i toni delle parole che Ankara, già in quelle stesse ore, rivolge a Washington non solo non sono concilianti ma per tempistica e circostanze di causa neanche proporzionate. Coinvolgere sul ‘caso Gülen’ gli Stati Uniti nei modi e nei termini a più riprese adottati lascia intendere che si investa su questo, essendo ritenuto inopportuno in questa fase evidenziare ben altre questioni e ‘nodi’. Certo non è pensabile che un attacco di tale portata e virulenza si sia prodotto infondatamente e senza soppesarne le conseguenze.  

In quelle ore, in effetti, avvengono fatti che sembrano indicare, se non un sostegno, una forte condiscendenza di Washington che abbia, insomma, in qualche modo e quanto meno agevolato. Innanzitutto la condanna del golpe solo quando questo mostra di aver esaurito la sua spinta propulsiva. Poi il fatto che tra i militari ‘ribelli’ ci sia anche il comandante della base aerea di Incirlik, che è il più grande sito della NATO gestito soprattutto dalle forze USA sia come arsenale nucleare tattico (con decine e decine di testate), sia come piattaforma per attività particolarmente di attacco nella penisola arabica e in Afghanistan. Una base dove operano CIA, NSA, DIA ed altre agenzie dei servizi segreti statunitensi che di nulla si sarebbero accorte. Nemmeno di almeno un aereo cisterna –nome in codice: Asena Due– decollato per rifornire in volo gli F-16 golpisti impegnati nel bombardamento dei palazzi del potere (parlamento, residenza presidenziale, quartier generale dei reparti speciali del ministero dell’Interno, comando della polizia, sede dei servizi segreti, centrale delle comunicazioni satellitari) consentendo loro di proseguire i raid per ore.  

I reparti statunitensi, poi, sono integrati nel comando turco, lavorando sempre fianco a fianco. Tre dei cinque reggimenti coinvolti nel colpo di Stato ad Istanbul fanno parte dei Corpi a Dispiegamento Rapido della NATO. Uno dei capi del golpe è il comandante della Seconda Armata turca, che coordina con gli Stati Uniti le azioni militari contro la Siria (e l’ISIS). Possibile che non sia trapelato alcunché? Possibile che una struttura come la NATO, con tutti gli strumenti a disposizione,

non abbia avvertito alcunché sui rischi potenziali della sicurezza in Turchia? Ankara entra poi in possesso di una serie di tracce radar che collegano la base con la rotta dei caccia golpisti e delle registrazioni della torre di controllo. Tra le alte sfere di Ankara si è convinti che il Pentagono, senza avvisare Ankara, fosse a conoscenza –se non l’ispiratore– dei piani dei generali ribelli e che questi si siano avvalsi della rete di comunicazione della NATO per sfuggire alla sorveglianza dell’intelligence governativa.  

Sulla base di Incirlik, in quelle ore, prende corpo un duro braccio di ferro: Erdoğan ordina di togliere l’elettricità, la fa circondare, chiude lo spazio aereo ai velivoli militari consentendo solo il rientro dei jet in missione, dispone una sorta di stadio d’assedio, vietando tutti i movimenti in entrata e in uscita. L’Eucom, il Comando delle forze USA in Europa, risponde ponendo tutte le forze USA di stanza in Turchia in stato di allerta difensiva al livello massimo, quello ‘Delta’, corrispondente ad un attacco in corso o ritenuto imminente. 

Ecco perché il ‘caso Gülen’ è da considerare come parte di uno scontro più ampio. Tutto questo richiede una spiegazione e più avanti vedremo come la tensione tra Stati Uniti e Turchia sia iniziata ben prima del golpe. 

Il golpe, per quale obiettivo? 

La domanda potrebbe apparire superflua: un golpe, infatti, lo si scatena per rovesciare un governo. Eppure, da quanto abbiamo detto, la sua messa in essere talmente grossolana, costellata di errori, induce a valutare il tutto da un’altra angolazione. Ci sono tante argomentazioni per escludere che chi l’ha promosso sia un gruppo di avventurieri o che ideatore sia stato lo stesso Erdoğan per poi giustificare la repressione in corso. Che Erdoğan da tempo si aspettasse un golpe e abbia lasciato agire per utilizzarlo, è un conto. Chi l’ha condotto, però, era convinto di essere sostenuto non solo dai nemici interni di Erdoğan, ma soprattutto da interessati attori esterni: da mesi, del resto, i rapporti con Washington erano deteriorati e la prospettiva del rovesciamento dell’attuale presidente turco, come abbiamo visto, non era affatto estranea al dibattito geopolitico statunitense né sgradita alla Casa Bianca. Le ragioni dell’ostilità risiedono nel netto cambio di rotta di Ankara in politica estera, di portata enorme, come vedremo più avanti, tanto da aver obbligato Washington alla messa in agenda, in tempi brevi, di un regime change. Trattandosi di un Paese membro della NATO, in una posizione geopolitica chiave e con scenari in corso (ad es. Siria) molto delicati in questa fase, con un presidente, Erdoğan, al potere da circa quindici anni, in crisi ma non certo in sofferenza di consensi e con un sistema che ha profondamente ridisegnato in diversi settori, quello militare in primis, collocando uomini di sua fiducia, tutto questo considerato rende evidente che un regime change richiede dinamiche

d’intervento non replicabili con quelle messe in atto, al di là del loro successo o meno, e solo per restare agli ultimi anni, in Paesi come la Libia, la Siria, l’Ucraina. Non essendo pensabile scatenare un intervento militare diretto dentro il campo atlantico, né fomentare una guerra civile che, al di là degli esiti e dei probabili tempi lunghi, creerebbe problemi peggiori –per Washington– di quelli che vorrebbe sanare, molto meglio un rovesciamento politico meno traumatico possibile e dalle conseguenze meno incontrollabili. Del resto, se è vero che Erdoğan e il suo partito hanno attraversato un 2015 elettorale un po’ turbolento (prima il calo di consensi alle elezioni di giugno e poi il recupero a novembre) resta il sèguito di una fetta molto consistente di popolazione. Ora, questo golpino estivo ha tutta l’aria di essere servito a saggiare la tenuta di Erdoğan, il grado di consenso di cui gode nel Paese. Sarebbe potuto evolvere progressivamente oppure essere subito archiviato in mancanza degli sperati esiti sin dalle prime ore. In questo contesto non ci sarebbe da sorprendersi se quei golpisti siano partiti convinti di certi sostegni per poi ritrovarsi soli, sacrificati di fatto come pedine da chi, a fronte della reazione delle autorità legittime, ha pensato di poter andare all’incasso investendo sulla reazione repressiva di Erdoğan stesso in funzione di un suo screditamento e in vista di un risentimento interno per un più ampio fronte di opposizione politica e sociale che possa poi farsi sentire nelle urne. 

Del resto la reazione del Governo, dei reparti lealisti, dell’AKP, dei servizi segreti e dei settori popolari favorevoli a Erdoğan c’è stata. I ripetuti allarmi negli ultimi anni, con particolare intensificazione nell’anno in corso, non possono aver lasciato indifferente una figura, qual è Erdoğan, che negli anni ha mostrato di essere intelligente, abile, spregiudicato, carismatico, dotato di capacità manipolatoria, pragmatico (al governo ha portato “musulmanisti” e liberal). 

Diverse fonti, del resto, sostengono che già intorno alle 16 del 15 luglio i servizi segreti turchi avevano capito che un colpo di Stato era imminente e che Erdoğan, da successive verifiche, ricevuta conferma, abbia lasciato fare in vista delle epurazioni che da tempo stava progettando per poi attivare la struttura di intervento contro-golpista già predisposta. 

Nella notte tra il 15 e il 16 luglio sono confluite su Istanbul, con una tempistica sorprendente, masse popolari, in parte spontaneamente ma in larga parte già pronte ad un’eventualità del genere, che hanno decretato la disfatta del putsch, affrontando i blindati ed i militari golpisti, che sono rimasti disorientati e smarriti. La reazione determinata di questa massa di popolazione ha disarmato le velleità golpiste. Non si può sparare su un popolo che si vuole “liberare”. Il contro golpe di massa e degli organismi governativi, nient’affatto frutto di un moto spontaneo nella sua componente dorsale e costitutiva, che ha saturato le strade, bloccato i mezzi golpisti e fatto sentire l’isolamento rispetto alla popolazione, è stato il fattore imprevedibile con cui fare i conti.  

Ripreso il controllo della situazione, Erdoğan ha subito approfittato del momento – un impatto emotivo favorevole ‘a tempo’– per imprimere un’accelerazione alla grande ‘pulizia’ avviata con gli arresti degli ultimi anni. Non è irrilevante, al di là del suo effettivo coinvolgimento, puntare il dito contro il temuto e temibile oppositore della sua linea nell’AKP, Fethullah Gülen, l’ex amico e sponsor della sua stessa ascesa politica, ultraliberista come lui. Per colpire la sua rete, rimuove licenzia arresta decine e decine di migliaia tra militari, poliziotti, gendarmi, prefetti, governatori di distretti provinciali, giudici, procuratori, giornalisti, insegnanti, rettori, funzionari del ministero delle Finanze, imam, e chiude giornali, enti, scuole e università private, sindacati. Un regolamento di conti con realtà di opposizione e figure sgradite (ad es. magistrati che indagavano sui traffici petroliferi dei suoi familiari e sulla corruzione nell’AKP) per realizzare la sua agenda politica di sultanato neo ottomano. Un repulisti che durerà e che per la sua meticolosa sistematicità evidenzia che una lista nera con relativi sostituti era pronta da tempo e che la repressione era stata pensata per andare ben oltre la rete di complicità con i golpisti. A completamento ed effettiva finalizzazione di tutto ciò, presidenza e governo stanno approntando un percorso di modifiche (legislative e costituzionali) per uno smisurato accentramento dei poteri del presidente anche sui servizi e sullo Stato maggiore delle Forze Armate. Un’operazione delicatissima che significherebbe la mutazione genetica o, se si preferisce, la liquidazione della Turchia moderna per come la si è conosciuta dal 1923 ad oggi e che, va da sé, lascia grosse incognite sui contraccolpi interni nell’immediato futuro. Proprio ciò che auspicano oltre Atlantico e che richiede, se gli riesce, accortezza di intervento e di gestione. 

Chi è Fethullah Gülen. Il contrasto con Erdoğan 

In esilio volontario dal 1999 vicino Saylorsburg, in Pennsylvania (Stati Uniti), in un complesso residenziale di sua proprietà di oltre novanta ettari, super attrezzato e meta di esponenti stranieri dei più svariati Paesi, oltre che di funzionari di FBI e CIA in strettissime relazioni e confidenze, è autore di una sessantina di libri e soprattutto guida di un potentissimo movimento musulmano di ispirazione sufi. Ha costruito una ramificata rete molto influente e vanta importanti entrature internazionali non solo religiose. In Turchia conta su un largo seguito nella società (decine di migliaia gli attivisti e una cerchia di seguaci stimata tra i 4 e i 5 milioni di persone) e nel mondo della politica, dell’economia, della finanza, del giornalismo, della magistratura, della polizia e in parte anche dell’esercito con uomini di sua fiducia in posizioni chiave. La sua attività consiste nell’aprire scuole, università, centri di istruzione ad oggi disseminati in 110 Paesi, dal Sudafrica alla Francia alla Germania all’Italia (a Como, Imperia, Milano, Modena, Roma, Torino…), nel controllare associazioni professionali e studentesche, organizzazioni caritatevoli, ospedali, aziende; si dispiega nella finanza (gestione, ad es., di Bank Asya) e nel suo impero mediatico di giornali, radio, televisioni. Nel complesso, anche un giro d’affari imponente, con un fatturato di miliardi di dollari.  

È grazie al suo movimento che, con il sostegno di giudici e alti funzionari di polizia, Erdoğan si fa strada in politica. È in grado di affrontare poteri come l’esercito e la magistratura che, dopo la prima grande vittoria elettorale nel 2002 del suo partito, l’AKP, fondato l’anno prima come formazione “musulmanista” ma non “islamista”, cercano in tutti i modi di bloccarne l’azione. Sono gli anni del processo (conclusosi nel 2008) che lo vede imputato insieme all’ex presidente Abdullah Gul e ad altri 69 quadri del partito, con la prospettiva, in caso di condanna, dell’ineleggibilità. Nella prima decade degli anni Duemila l’asse Erdoğan-Gülen si avvale di una generazione di giovani magistrati, di militari, poliziotti, burocrati, politici, formatisi nelle scuole guleniste, vincitori di concorsi e proiettati in ruoli e cariche di spicco. Un passaggio politico fondamentale consisterà nella vittoria dell’AKP del referendum del 2010, che emenda in modo significativo la Costituzione del 1982 successiva al colpo di Stato militare del 1980 e per anni fondamento del potere dei militari in Turchia. Con le modifiche, l’esecutivo avoca controlli e poteri, anche di nomina. S’inscrive nel 2011 la grande epurazione di centinaia di ufficiali e dei capi di Stato Maggiore di esercito e aeronautica, oltre che di figure di spicco della polizia, fatti dimettere tramite un processo per cospirazione contro il governo noto con il nome di “Ergenekon”. Quest’operazione, ideata dallo stesso Gülen d’intesa con Erdoğan grazie a quella parte di magistratura a lui fedele, consente di indebolire la componente che tradizionalmente (e costituzionalmente) come voluto dal fondatore della Turchia moderna, il “padre della patria” Mustafà Kemal Ataturk, ha sempre rappresentato un baluardo a difesa del laicismo dello Stato. 

Eppure in quello stesso anno, alla vigilia delle elezioni, si rompe l’asse Erdoğan Gülen in modo irreversibile, portando a maturazione delle frizioni probabilmente non estranee alle motivazioni che avevano indotto Gülen a trasferirsi, nel 1999 appunto, negli Stati Uniti.  

Gülen apprezza sempre meno l’eccessivo accentramento di potere del premier e futuro presidente e soprattutto ha una visione dell’Islam ben differente dalla sua. Erdoğan si mostra incline ad un irrigidimento dei costumi islamici, si atteggia a “Sultano”, propende per una politica estera aggressiva, prefigura un neo ottomanesimo declinato nella forma di una democrazia islamico presidenziale dai tratti autoritari. La visione conciliatrice di modernità e tradizione dell’Islam che ha Gülen s’impernia in una solidità di rapporti con Washington. Le ambizioni del pur atlantico Erdoğan, con quel portato di autonomia e narcisismo che comporta, appaiono ai suoi occhi avventuristiche e pericolose. Ovvio che le attenzioni della Casa Bianca si concentrino sul ben più affidabile Gülen. 

Agli inizi della prima decade del Duemila, gli uomini di Gülen sono sotto attacco: estromessi a decine dalle liste elettorali, molti di più rimossi dalla pubblica amministrazione (particolarmente nella Pubblica Istruzione) come effetto di un pacchetto di riforme modernizzatrici, nel mondo degli affari sono colpiti nelle mancate assegnazioni di appalti e nell’estromissione dalla firma dei contratti. Da quel momento tra Erdoğan e Gülen è guerra aperta anche per via giudiziaria, da cui il primo esce vincitore con i risultati elettorali a dargli ragione. 

Gülen prosegue nel rafforzare la presenza del suo movimento in politica, magistratura, media, università, polizia ed esercito, senza lesinare attacchi per defenestrare il co-fondatore del suo stesso partito. La tangentopoli turca del dicembre 2013, che colpisce uomini d’affari e politici dell’AKP, incluso il figlio dello stesso Erdoğan, Bilal, è un’operazione della rete di Gülen così come, a pochi giorni dalle elezioni 2015, la diffusione del video che mostra il passaggio di armi destinate a Daesh. Erdoğan replica accusando dei militari vicini a Gülen e dispone la chiusura del quotidiano gulenista Zaman, da più di un decennio il quotidiano più letto in Turchia. 

Washington contro Ankara 

Cosa ha incrinato i rapporti tra Stati Uniti e Turchia? Cosa è accaduto negli ultimi mesi e si è acuito dopo il tentato golpe? La risposta sta nella presa d’atto, ad Ankara, del fallimento della politica estera aggressiva degli ultimi cinque anni che, per propri interessi, coincidendo con quella atlantica e delle petro-monarchie del Golfo, si è esplicata nel sostegno a Daesh (Stato Islamico), contro Damasco Teheran Mosca. Erdoğan, in questa fase, ha mirato ad acquisizioni territoriali siriane, previo rovesciamento di Assad, e ha visto favorevolmente la costituzione di un’entità islamista su porzioni di territorio siriano-iracheno che si scontrasse e auspicabilmente liquidasse l’insorgenza kurda. Il regolamento di conti con questa entità islamista si sarebbe consumato in un secondo momento, essendo il Califfato di Daesh l’avversario geopolitico regionale, quasi naturale, del neo-ottomanesimo. 

L’epicentro di tutto, in questa fase, è risultata essere la Siria. Da quando è iniziata, nel 2011, la guerra d’aggressione salafita-wahabita con sostegno occidentale (Stati Uniti e Francia in prima fila), il governo turco si è schierato subito contro Bashar al Assad e lo ha combattuto, soprattutto fornendo nel nord della Siria appoggio logistico, basi nel proprio territorio, armi e munizioni a gruppi di ribelli e mercenari delle più svariate provenienze (soprattutto estremisti islamisti).

Assad però tiene. Grazie al sostegno popolare, al suo esercito, alla libanese Hezbollah, all’Iran e soprattutto grazie all’intervento russo, che non si limita più alle forniture militari ma interviene direttamente il 30 settembre scorso. L’abbattimento di un aereo russo ad opera di due F-16 turchi, a fine novembre 2015, innesca una forte crisi diplomatica tra i due Paesi e una guerra commerciale che danneggia fortemente l’economia della Turchia. Il punto simbolicamente più alto di convergenza (d’interessi) con gli USA e di confliggenza con la Russia (l’abbattimento del Sukhoi Su-24 russo) si rovescia nel suo contrario, di lì a pochi mesi, per un motivo politico-militare: il mancato rovesciamento di Assad, che avvia la liberazione del Paese. Il bilancio di un quinquennio disastroso in politica estera e per i suoi contraccolpi in politica interna (cui concorrono provvedimenti di stampo neoliberista per il prospettato ingresso nella UE) induce Erdoğan ad uno spregiudicato cambio di rotta. Di qui il disgelo ed il riallaccio dei rapporti con la Russia e la cessazione delle ostilità verso Damasco, a significare un rapido riorientamento della politica estera non più verso Ovest, la NATO e per l’ingresso nella UE, ma verso Est, per una cooperazione più stretta con Russia, Cina, Iran ed un rafforzamento delle relazioni con gli Stati dell’Asia Centrale. 

L’unico versante in cui si è registrata una continuità d’azione che si è andata consolidando in modo decisivo concerne l’atteggiamento verso Daesh. Dopo l’estate del 2014, infatti, per le pressioni ‘occidentali’ ed il loro mutato atteggiamento verso gli islamisti, Ankara interviene con arresti, lo smantellamento di molte reti di reclutamento e controlli più rigidi al confine. Non ancora, certo, una lotta decisa. Non a caso l’accordo tra Stati Uniti e Turchia per l’uso della base di Incirlik per i voli della coalizione anti-Daesh viene firmato più tardi, il 29 luglio 2015, dopo che per quasi un anno Ankara aveva negato l’autorizzazione all’uso delle piste. Non sarà questo a indurre Daesh a compiere attacchi contro obiettivi civili turchi, ma la lettera di scuse inviata il 27 giugno scorso da Erdoğan a Vladimir Putin per l’abbattimento dell’aereo russo, nella quale, al di là della disponibilità a risarcire la famiglia del pilota russo ucciso e a condannare i responsabili, è evidente la premessa per il riavvicinamento alla Russia. Il giorno successivo Daesh rivendicherà l’attentato all’aeroporto di Istanbul (41 morti e circa 250 feriti). 

Questo spostamento di campo e riorientamento della politica estera raggiungerà l’apice con la visita di Erdoğan a Mosca e la volontà dichiarata di aprire “una nuova pagina” nei rapporti tra Russia e Turchia. 

A Washington e nelle cancellerie europee il segno tangibile della fortissima irritazione sta tutto nelle reazioni massmediatiche: se prima al sultano di Ankara si consentiva di tutto, chiudendo entrambi gli occhi, ora lo riscopre despota, lo si attacca di continuo e lo si demonizza. Del resto lo scenario è paradossale: la Turchia, allo stato ancora membro della NATO, stringe accordi non solo sul piano

commerciale ed economico, venendo meno all’embargo contro la Russia imposto dagli USA e ottemperato con molti malumori dalla UE, ma addirittura trova sintonie in politica estera, per ora sulla Siria, lungo direttrici contrastanti, antitetiche, se non ostili a quelle della NATO e di Washington. Se seguito da sviluppi, questo scenario avrà ricadute negative enormi per l’euroatlantismo, ad oggi non del tutto calcolabili. 

Pan-turchismo e importanza geopolitica della Turchia 

Sin dai tempi della Guerra Fredda, la Turchia –nella NATO dal 1952– è stata per Washington un alleato prezioso e pressoché fidato fino all’arrivo di Erdoğan.  La rilevanza strategica di questo Stato è già inscritta nella geografia politica che la vede a cavallo tra il continente europeo e quello asiatico, al crocevia di tre aree geopolitiche nevralgiche, quali quelle balcanica, mediorientale ed euroasiatica, oltre che come avamposto in quei territori cruciali che si stendono dal confine iraniano al Caucaso, dal Mar Nero al Caspio. 

Inoltre, sin dai tempi degli zar, è secolare il contrasto di interessi: i russi sono da sempre alla ricerca di uno sbocco sul Mediterraneo, i turchi hanno una naturale direttrice espansiva che attraversa quella koiné linguistica e culturale di genti turche disseminate in più Stati sino ad arrivare tra i monti del Caucaso costituendo –il pan-turchismo– un fattore di preoccupazione e di potenziale instabilità sul fianco meridionale della Russia. 

Si pensi che la maggior parte dei turchi risiede nel Turkestan e non in Turchia. Il Turkestan non è un paese ma una sconfinata parte dell’Asia, che include indicativamente gli attuali Azerbaijan, Kazakhstan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Afghanistan del Nord, Xinjiang Uyghur (quindi con una profonda penetrazione nella Cina nord-occidentale). A ciò si aggiungano appendici ‘comunitarie’ significative che vanno dai Balcani (dalla Bosnia al Sangiaccato, dal Kosovo alla Macedonia), alla Bulgaria, alla Grecia, alla Moldova, alla Romania, all’Ucraina, alla Russia, all’Iran, costituendo il tutto una vasta comunità molto unitaria dal punto di vista linguistico e culturale. 

Ankara la cura sottoscrivendo Trattati con i su indicati Stati dell’area turcofona e promuovendo investimenti diretti (ora secondi solo a quelli degli Stati Uniti) tramite un apposito organismo, la Turkish International Cooperation Agency. Altrettanto importanti le relazioni culturali. Dacché Erdoğan è al potere, si è intensificata la promozione di incontri ufficiali su temi d’interesse del “mondo turco”, cui si affianca l’attività di una moltitudine di associazioni ‘private’ dedite alla promozione della cultura pan-turca, ben tre satelliti per le telecomunicazioni ad irrobustire questo versante e una rete di licei turchi in Asia centrale che arriva anche tra gli uiguri.

In termini numerici, includendo i turchi di Turchia ed escludendo i non turchi che vivono in quest’area, si stima in circa 200 milioni gli abitanti di questa nazione senza Stato. In tale porzione di mondo si staglia come eccezione il Tagikistan, a prevalente popolazione iranica. Ci si può rendere conto della natura potenzialmente destabilizzante quanto a forze centrifughe presenti in questa nazione ‘virtuale’ chiamata Turkestan che interessa non solo la Russia, ma anche una serie di statualità da non lunga data costituite. Tanto più se si considera che si tratta di un’area depositaria di grandissime riserve di petrolio e di gas, in larga parte di recente prospezione, attraversata da un’imponente rete di oleo-gasdotti che la rendono di interesse ancor più strategico. In questo contesto la Turchia, che è praticamente senza petrolio, funge da snodo vitale di trasporto in direzione Est Ovest. 

A ciò si aggiungano le politiche di contenimento delle istanze arabe che l’hanno portata per decenni a lavorare d’intesa con Israele. Relazioni riprese proprio di recente (fine giugno 2016), poco prima del golpe, dopo la crisi della Freedom Flottilla, con in ballo, anche con il recente accordo con Israele e con la Russia, di un grande hub universale del gas e del petrolio mediorientale. 

Tutto questo dà un’idea dell’importanza della Turchia per Washington. Consapevoli che con il sistema del Trattato del Nord Atlantico (NATO), la Turchia, geopoliticamente parlando, non ha nulla a che fare, gli USA hanno sempre accondisceso alle politiche di Ankara a dir poco autoritarie ed energiche nei confronti delle opposizioni sociali e genocidiarie nei confronti della nazione kurda, mediando e contenendo le sue naturali propensioni politiche autonome. Ankara, all’ombra della NATO, ha potuto sviluppare un modello autoctono, autoritario e liberticida, un mix di progresso e tradizione, con buoni rapporti con l’Occidente e buona pace delle repressioni interne.  

L’ascesa di Erdoğan e del suo partito “musulmanista”, l’AKP, segna una storica sterzata, non ancora un’inversione di rotta. Ankara riconosce lo Stato di Palestina, si fa paladino dell’Islam, avvia programmi di scambi culturali, apertura di moschee, centri culturali, finanziando innumerevoli progetti dalla Bosnia all’Albania alla Somalia all’Egitto alla Libia.  

Si può comprendere il ben più che fastidio che provoca in modo crescente a Washington la politica autonoma di Ankara. L’elemento di contenimento e di coesione lo si era trovato nel contrappeso che esercitava l’affidabile e controllabile Gülen dentro lo stesso partito di Erdoğan e da un quinquennio a questa parte nel comune interesse, unitamente agli Emirati del Golfo e Paesi ‘occidentali’, al rovesciamento della Siria baathista di Assad.  

A concorrere al deterioramento dei rapporti con Washington c’è il terrore dell’effetto domino che l’ascesa dei kurdi siriani potrebbe creare sul suo territorio

nella riapertura della “questione” dell’autodeterminazione del Kurdistan in una unità territoriale autonoma, già prefigurata dagli USA nella prima guerra del Golfo (per questo Ankara fu da subito contro la guerra in Iraq). I piani di Washington, invece, investono sui kurdi contro Assad e i suoi alleati. 

Poi sul nucleare (luglio 2015) è arrivata l’intesa, percepita in Turchia come un tradimento da parte degli USA, con l’altro ‘rivale’ regionale, Teheran.  E anche il contenzioso con l’UE. Le trattative lunghe, estenuanti, inconcludenti in particolare per le resistenze della Germania, della Francia e della Grecia per l’ingresso nella UE della Turchia, paese per giunta della NATO, hanno fatto crescere in larga parte della popolazione e della politica turca un aperto fastidio ed una volontà di rivalsa, a fronte della rapidità con cui sono stati accettati via via Stati ex membri del Patto di Varsavia legati all’ex URSS. Alle rimostranze europee sulla presunta inadeguatezza della Turchia ai parametri a tutto campo richiesti, sull’islamizzazione di una parte della società, sulla refrattarietà delle massime autorità a cedere ulteriori porzioni significative di sovranità nazionale, si sta rispondendo con una crescente acrimonia verso quelle che sono percepite come ingerenze lesive. Ankara non intende deflettere dal suo “dirigismo liberista”, dalla sua politica statale di sostegno all’economia di mercato che vede un ruolo fondamentale dei militari. Le opere pubbliche, specialmente le infrastrutture, sono impostate sulla base di investimenti pianificati dallo Stato e realizzate in parte direttamente dalle forze armate ed in generale vi è grande insofferenza sulle ingerenze estere in politica interna. Salito al potere, l’AKP ha abilmente utilizzato i pre-requisiti richiesti dall’UE per limitare in maniera efficace il peso politico dei militari. A Bruxelles e a Washington l’ascesa di Erdoğan fu vista bene: appariva come il capo di una democrazia islamica che avrebbe messo i militari sotto il controllo civile. In effetti Erdoğan, nel 2003 e 2004, nel quadro delle trattative per l’ingresso nell’UE, ha limitato i loro amplissimi poteri e inserito “civili” nell’istituzione militare principale che è il Consiglio Nazionale di Sicurezza (MGK). Formalizzato nel corso del colpo di Stato del 1960, fu istituzionalizzato nella costituzione l’anno successivo, l’MGK poteva suggerire l’approvazione o l’abrogazione di leggi, sovrintendere alla loro applicazione e mantenere per di più un apparato giudiziario indipendente. Aveva anche il compito di controllare radio, televisione, cinema e produzione multimediale. Dopo il colpo di Stato del 1980 l’MGK era stato addirittura rafforzato con la revisione costituzionale, attuata prima che il potere fosse rimesso formalmente nelle mani dei civili (1982). L’operazione di Erdoğan è stata però quella non di smantellare questo potere, ma di metterlo al proprio servizio. Quindi non ha mai toccato l’autonomia giuridica e finanziaria dell’esercito. I militari hanno conservato il loro sistema giudiziario interno. Continuano a ricevere ad ogni anno fiscale consistenti fondi che gestiscono in autonomia, senza dover rendere conto a nessuno. Negli ultimi anni lo sforzo per

l’ammodernamento materiale e organizzativo è stato enorme, come dimostrano i numeri del bilancio militare. Se si guarda alla “lista della spesa” si tratta anche di materiale non definibile come difensivo. L’esercito è stato vassallizzato dall’esecutivo (presidente/governo) ma ha conservato i suoi privilegi in cambio della lealtà al regime. Ma non ha affatto puntato ad un suo indebolimento strutturale men che meno asservendolo a direttive politiche ‘esterne’. Quando ha affiancato le direttrici NATO vi è sempre stata una comunanza d’interessi.  

E ora? 

Ankara, per entrare nell’UE, dovrebbe omologarsi alle ‘democrazie’ occidentali, rinunciare alla propria struttura costitutiva kemalista-ottomana, abdicare alle sue ambizioni regionali, il che non può e non vuole fare. Se l’apertura verso Mosca per ora non va a sostituire quella verso l’Europa, semmai l’affianca, è evidente che una scelta di campo andrà fatta, così come se rimanere ancora legati o meno agli Stati Uniti. Per quanto queste opzioni possano transitoriamente integrarsi e conciliarsi in qualcosa oggi impensabile e comunque precario, inevitabilmente una prenderà il sopravvento.  

Per gli Stati Uniti perdere la Turchia significa compromettere la propria penetrazione in Asia centrale, il mercato più dinamico in divenire del pianeta di cui la Turchia è l’anticamera.  

Putin è prudente ed accorto. Il suo scopo è neutralizzare l’ancestrale rivale turco, guadagnando l’accesso al Mediterraneo, preservando le vie del Caucaso per le rotte terrestri dell’energia, mantenendo il ruolo guida nell’Asia Centrale per i vitali legami con l’Iran, l’India e la Cina. Tra l’altro, in tal modo, infligge un duro colpo alle ambizioni USA nell’area. La strategia offensiva di Mosca in Siria ha avuto efficacia laddove Ankara ha fallito, ottenendo sinora risultati più importanti della sola difesa di un alleato regionale. Putin sa che questo ritorno alla normalizzazione poggia su fattori instabili (ambizioni di Ankara e sollecitazioni eversive esterne sulla Turchia) e che lo scenario, anche a breve, potrebbe mutare di nuovo. 

Erdoğan non può rinunciare al sogno di guidare una potenza regionale e di coagulare l’area turcofona, in cambio di un futuro peraltro incerto in Medio Oriente. Certo, ad oggi pesa molto la necessità di tempo per risollevare l’economia del Paese e procedere a una profonda ristrutturazione dei rapporti politici interni e dell’assetto costituzionale. La Russia è il secondo partner commerciale della Turchia e la crisi tra i due Paesi è costata ad Ankara circa una decina di miliardi di dollari. La convergenza geopolitica resta però precaria e fondamentalmente confliggente: la Russia era e rimane il nemico per eccellenza. 

Consapevole della straordinaria rilevanza che la Turchia riveste per gli interessi atlantici, Erdoğan gioca al rialzo. Minaccia di rompere gli accordi siglati con l’UE sui migranti, se non riceverà i soldi promessi e se Bruxelles non concederà la liberalizzazione dei visti. Alza la voce, forte anche delle intese con la Russia, ma non mostra di avere alcuna intenzione di ‘stare’ con la Russia contro gli Stati Uniti o con questi contro la Russia. Qualunque legame vedrebbe la Turchia in posizione subordinata. 

Ora, baldanzoso per l’esito positivo sul golpe, sta investendo sulla repressione per rafforzare il suo potere. La forza di oggi potrebbe rovesciarsi, in un domani a breve-medio termine, in una fragilità di tenuta politica, tra pressioni esterne e risentimenti, rancori, ostilità per le purghe in divenire ben oltre l’area golpista. Un fatto è certo: da tempo Erdoğan non è più l’interlocutore gradito di UE, NATO, USA. Anche se tornasse all’ovile atlantico, resterebbe sempre una figura inaffidabile. In un modo o nell’altro a Washington lo vogliono defenestrare, in tempi più rapidi possibili. Le presidenziali di novembre negli Stati Uniti porranno termine a questa fase di relativa ‘vacanza’ alla Casa Bianca. 

Francesco Labonia 
(Indipendenza n. 40 – luglio/agosto 2016)