Da molte parti si sente dire che gli Stati europei (e l’Italia ancor più degli altri) avrebbero sempre incoraggiato l’ingresso in massa di immigrati, essenzialmente al fine di abbassare il costo del lavoro e le tutele sociali conquistate dai cittadini “autoctoni”. Questa convinzione, incredibilmente, viene ribadita ancor oggi, proprio quando vediamo sempre più Stati europei che stanno alzando muri e blocchi alle frontiere violando il trattato di Schengen, mentre rifiutano l’imposizione da parte dell’UE di ripartire e accogliere quote di rifugiati. Al contempo altri Paesi protestano in nome del mito della solidarietà europea, spaventati che questo possa costituire l’inizio della fine dell’UE e di dover subire nell’immediato l’impatto delle masse di immigrati respinti dagli altri e perciò minacciando sanzioni verso quegli Stati che rifiutano l’accoglienza. 

Per quanto riguarda l’Italia si dice che il governo e gran parte delle forze politiche, nonché la maggior parte degli opinionisti legati al “politicamente corretto”, avrebbero sempre invitato tutti ad entrare liberamente, in nome della solidarietà, e che dietro questo “buonismo” si sarebbero celati gli stessi propositi sopra enunciati. 

Eppure, se andiamo a esaminare le leggi varate negli anni sulla questione dell’immigrazione, vediamo che l’Italia, al pari degli altri Paesi europei, nei decenni di maggior sviluppo, ha usufruito del lavoro di un numero di immigrati molto limitato mentre in seguito, davanti al progressivo intensificarsi del fenomeno migratorio, ha emanato via via leggi con l’esplicito obiettivo di controllarlo e nel contempo scoraggiarlo, rendendo sempre più complicata e ancor più spesso impossibile la procedura di regolarizzazione. Se l’obiettivo di ridurre il numero di immigrati non è stato raggiunto, non è dipeso quindi dalla maggior tolleranza di una qualche legge rispetto a un’altra, ma dalla forza delle motivazioni che inducevano (e inducono) le persone a emigrare dai loro Paesi d’origine. La maggiore apertura o chiusura espressa nei provvedimenti ha più che altro influito sulla diversa proporzione degli immigrati regolarizzati nei confronti di quelli chiamati clandestini. I clandestini infatti sono tali non in base a un proprio immutabile status, ma secondo i requisiti che sono definiti da una data legge. In generale si può notare che più le leggi sono (state) restrittive, nel senso di porre maggiori difficoltà alla possibilità di regolarizzarsi, più hanno prodotto un aumento della quota di “clandestini” rispetto ai “regolari” e più gli immigrati appartenenti alla prima categoria hanno fornito manodopera in condizioni concorrenziali con i lavoratori italiani, in quanto chi è costretto a restare nella condizione di clandestinità può essere assunto solo in nero e non è in grado di avanzare alcun genere di richiesta, neppure quella di essere (sotto)pagato con una certa regolarità. Inoltre molti clandestini sono stati indotti a restare in Italia sine die, per il timore di non poterci più tornare, mentre se regolarizzati, non avendo questa paura, sarebbero potuti uscire dal Paese con maggiore tranquillità. La clandestinità non è una condizione ontologica: il fatto è che, a differenza di quanto vien detto, entrare regolarmente provenendo da un Paese extracomunitario è sempre stato difficile. Esistono visti turistici, per un soggiorno massimo di novanta giorni, ma sono pochi gli stranieri in grado di ottenerlo. Questo viene concesso difficilmente e solo a persone che possono dimostrare di essere benestanti e di avere un buon lavoro in patria o di avere un invito da parte di qualcuno che fornisca una fidejussione bancaria, adeguate possibilità economiche di mantenimento per il periodo del visto nonché un alloggio, oltre a un biglietto di andata e ritorno. Chi arriva con un visto turistico non può cercare un lavoro ed eventualmente modificare quel visto in un permesso di soggiorno per lavoro. Ugualmente, chi riesce ad entrare con un permesso per studio non lo può modificare. Si diventa clandestini anche quando il visto giunge a scadenza e non può più essere rinnovato perché non si ha più un lavoro. Tutti questi paletti non fanno che incrementare il numero dei clandestini rispetto ai regolari e il lavoro nero in condizioni di maggior sfruttamento. 

Quando i governi ci ripetono –peraltro sempre più stancamente– che gli immigrati possono costituire una risorsa, ormai lo fanno essenzialmente per controbattere le tesi opposte di coloro che insistono nel ribadire la necessità di ripristinare i controlli alle frontiere nazionali. Chissà, se si arrivasse a bloccare la libera circolazione delle persone, ci potrebbe essere il rischio che qualcuno cominci a capire che forse, prima di quella, sarebbe necessario farlo nei confronti delle merci e magari anche dei capitali. Infatti, stante la libera circolazione di questi due elementi, è molto più comodo per le imprese delocalizzare la produzione e per i consumatori indebitati comprare beni prodotti da altri Paesi dove il costo del lavoro e le tasse sono di gran lunga inferiori, invece di favorire un esodo di massa di immigrati che vengano a lavorare per produrre qui. Quello che viene chiamato «l’esercito industriale di riserva» ormai agisce su scala globale e viene utilizzato prevalentemente attraverso lo spostamento dei capitali e delle merci, cosa che l’opinione pubblica fatica meno ad accettare, perché lo ritiene quasi un ineluttabile scotto da pagare al progresso o addirittura qualcosa di “naturale”, a differenza dell’arrivo di masse di immigrati. Senza contare che negli ultimi anni, proprio per inseguire capitali e merci che si spostavano, sono stati più gli italiani a emigrare che gli stranieri a giungere in Italia. 

Primi tentativi normativi dell’immigrazione 

Il fenomeno dell’immigrazione in Italia data a partire dagli anni Settanta. All’inizio si trattava soprattutto di donne, domestiche e badanti prevalentemente filippine, mentre dall’Africa, a parte alcuni gruppi di pescatori tunisini in Sicilia, venivano quasi esclusivamente gruppetti di studenti nelle nostre università, oltre ai rifugiati politici che giungevano scappando dalle dittature di vari Paesi africani, asiatici e latino-americani. Negli anni Ottanta, con l’aumento della povertà dovuta all’intensificazione dello sfruttamento del Terzo Mondo e all’indebitamento imposto a quei Paesi, a fronte di un loro continuo aumento demografico quasi simmetrico al decremento che si verificava in Italia e in gran parte dell’Europa, cominciarono ad affluire, soprattutto dall’Africa maghrebina (ma anche dalla Nigeria, dall’Eritrea, dal Senegal) e da alcuni Paesi dell’Asia Centrale (come il Pakistan, lo Sri Lanka e il Bangladesh) e le forze politiche cominciarono a dibattere su come rapportarsi e fronteggiare il fenomeno. Una forte accelerazione si ebbe a cavallo degli anni Novanta quando, a nuovi e sempre più numerosi immigrati da quei Paesi, se ne aggiunsero altri dall’Europa orientale, soprattutto romeni, polacchi e –ben più visibili perché arrivati per mezzo dei barconi– albanesi. 

Legge n. 39/1990 (Martelli) 

Dopo un primo tentativo di regolarizzare una serie di posizioni lavorative nel 1986, la vera svolta nella legislazione si è verificata con la Legge Martelli del 1990. Dovendo prendere atto del vasto numero di immigrati presenti, venne indetta una sanatoria generalizzata per tutti quelli che potevano dimostrare di essere giunti in Italia entro l’1 dicembre 1989. La dimostrazione poteva essere fornita attraverso un regolare biglietto, uno scontrino o la testimonianza di qualcuno che aveva affittato una camera o per cui lo straniero aveva lavorato. Ovviamente non tutti avevano conservato una prova cartacea o riuscivano a convincere il proprio datore di lavoro a fare una dichiarazione in quanto questi, pur non incorrendo in sanzioni per il periodo pregresso, sarebbe stato poi obbligato a regolarizzarlo in seguito o in alternativa a licenziarlo. Gli stranieri che potevano fornire una prova, ottenevano dalla Questura un permesso di soggiorno valido al massimo due anni, dopo di che chi alla scadenza non fosse riuscito ad essere assunto regolarmente, sarebbe ripiombato nella clandestinità. 

Chi non aveva la possibilità di fornire la prova richiesta riceveva, se intercettato dalla polizia (e all’epoca i controlli erano abbastanza diffusi e frequenti), il cosiddetto “foglio di via”, un’ingiunzione prefettizia a lasciare il territorio italiano entro 15 giorni, cui poteva essere opposto ricorso al Tar. In assenza di ricorso o dopo il respingimento dello stesso, scaduti i 15 giorni, lo straniero poteva essere “accompagnato” forzosamente alla frontiera. Chiaramente, spesso, chi poteva, cercava in quel lasso di tempo di far perdere le proprie tracce, non potendo da allora in poi più uscire dallo “status” di clandestino, neppure trovando qualcuno disposto ad assumerlo regolarmente per i dieci anni successivi all’emissione del “foglio di via”.  

La legge Martelli ha introdotto per la prima volta pene detentive e pecuniarie per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aggravate dalla circostanza del concorso per delinquere. Pene lievi, se si considerano quelle attualmente in vigore, che erano: la reclusione fino a due anni o una multa fino a due milioni delle vecchie lire, aumentate a sei anni più una multa da dieci a cinquanta milioni in caso di concorso o lucro. 

Per quanto riguarda gli immigrati non comunitari che sarebbero potuti venire, prevedeva la possibilità di regolamentarne gli ingressi mediante programmazione statale dei flussi in base alle necessità produttive e occupazionali del Paese. In un’altra parte della legge veniva normato il diritto all’asilo politico.  

Legge n. 40/1998 (Turco-Napolitano) 

Con questa legge il governo ulivista guidato da Prodi indicò una data ultima in cui era necessario dimostrare di essere già presenti in Italia. Non si promulgò una sanatoria generale, ma subordinata alla dimostrazione di svolgere un’attività lavorativa, necessariamente fino ad allora in nero. Dipendendo totalmente da questo elemento, molti lavoratori che avevano trovato lavoro proprio perché lo stato di clandestinità garantiva che non sarebbero ricorsi ai sindacati per essere messi in regola ed uscire dallo status di lavoratori “in nero”, non poterono regolarizzarsi o, anche in presenza di eventuali prove testimoniali, scelsero di non avvalersene per non perdere il lavoro, dal momento che non c’era nessun obbligo da parte dei datori di lavoro ad assumerli successivamente. Pertanto, chi avesse denunciato la propria situazione lavorativa irregolare, avrebbe subito la conseguenza di perdere il lavoro, oltre a non ottenere nessun permesso di soggiorno e rischiare l’espulsione. Ci fu al contempo una fioritura di falsi contratti, per lo più attraverso il pagamento di mediatori illegali che si arricchivano alle spalle degli stranieri. Per quanto riguarda i fortunati che riuscivano a ottenere il permesso di soggiorno, la legge 40 sanciva dei diritti, come quello all’assistenza sanitaria, all’obbligo scolastico per i minori, al ricongiungimento familiare, ad ottenere la “carta di soggiorno” a tempo indeterminato dopo cinque anni di permanenza regolare e continuativa (attestata dal lavoro, dal pagamento delle tasse e dal permesso di soggiorno) nel territorio nazionale. Lo status di titolare di carta di soggiorno poteva essere esteso anche al coniuge e ai figli minori conviventi. Dopo di che l’espulsione poteva sempre essere disposta, ma solo a fronte di gravi motivi di ordine pubblico. Gli stranieri che riuscivano ad ottenere la “carta di soggiorno” avevano la garanzia di poter restare anche perdendo il lavoro, a differenza di chi doveva rinnovare il permesso ogni due anni al massimo (ma per alcune tipologie lavorative anche ogni anno). La stessa legge stabiliva inoltre che il governo avrebbe emanato annualmente un decreto flussi, consistente in un atto normativo con cui veniva stabilito ogni anno quanti cittadini stranieri non comunitari potevano entrare in Italia per motivi di lavoro. Attivato per la prima volta nel 2001, è durato fino al 2007, dopo di che è stato sospeso per l’emergere della crisi, rimanendo soltanto dei limitati permessi per i lavori stagionali rinnovabili annualmente. Attraverso questo strumento il governo indicava ogni anno, di concerto con le Regioni, alcuni Paesi e quanti stranieri al massimo potevano essere ammessi da ognuno di questi, previa richiesta di assunzione. Erano fissate due categorie distinte –“lavoratori domestici” e “lavoratori subordinati”– per ognuna delle quali i numeri erano diversi e potevano variare di anno in anno e per ogni diverso Paese di provenienza indicato. In anni successivi potevano essere presi in considerazione anche in parte Paesi diversi da quelli selezionati precedentemente. Soglie massime erano previste anche per i ricongiungimenti familiari. 

All’interno delle quote altri stranieri potevano essere invitati tramite uno sponsor (o garante), un cittadino italiano o straniero in regola che garantiva ospitalità a casa propria o un alloggio idoneo con regolare contratto d’affitto, fideiussione bancaria o polizza assicurativa di 10 milioni e mezzo di lire (una cifra non indifferente per allora), come garanzia dei costi di iscrizione al servizio sanitario nazionale, spese di sussistenza per un anno e rimborso degli eventuali costi di rimpatrio forzato dopo dodici mesi per chi non avesse nel frattempo trovato un lavoro regolare.  

Per far venire una persona occorreva esibire il suo passaporto: questa è l’ammissione implicita che venivano invitati solo “clandestini” già presenti, facendoli tornare in patria, per presentarsi all’ambasciata al momento che venivano richiamati per essere assunti dal datore di lavoro o invitati dallo sponsor, attendendo per diversi mesi che venissero svolte tutte le pratiche burocratiche, allo scopo di poter tornare come “regolari”. Del resto si può immaginare la difficoltà di assumere delle persone senza conoscerle, o anche ospitarle, o garantire per loro, ragion per cui gli sponsor, come i datori di lavoro, chiedevano di assumere quelli che già conoscevano e magari lavoravano “in nero”, essendo entrati in precedenza in Italia come “clandestini”. L’incertezza sulla possibilità di rientrare nel numero previsto e la difficoltà ad interrompere per un periodo non facilmente prevedibile il lavoro in nero che stavano svolgendo, è stata la causa per cui anche stranieri, che i datori di lavoro avrebbero accettato di mettere in regola, hanno dovuto rinunciare a questa opportunità. Naturalmente molti altri datori di lavoro hanno preferito continuare a utilizzare la manodopera clandestina per motivi di convenienza e non hanno mai neanche cercato di regolarizzarli utilizzando questa “finestra” di opportunità. Eppure, anche con tutte queste difficoltà, le domande di regolarizzazione di lavoratori e di inviti attraverso sponsor, sono state sempre di molto superiori alle possibilità numeriche offerte dai decreti annuali. 

Legge n. 189/2002 (Bossi-Fini) 

Con la legge Bossi-Fini, attualmente ancora in vigore, il decreto flussi è rimasto, ma dalla sua promulgazione i datori di lavoro che volevano assumere un immigrato dovevano non solo garantirgli un lavoro, ma anche un intero pacchetto chiamato «contratto di soggiorno», comprendente l’alloggio (di cui deve essere accertata l’idoneità attraverso certificati e complesse pratiche burocratiche) e il biglietto di ritorno al proprio Paese d’origine. 

Come al solito le enunciazioni di princìpio, che appaiono di civiltà, si scontrano con le leggi del mercato. Qual è infatti, per un datore di lavoro, la convenienza di assumere uno straniero con un contratto regolare, a fronte di tali oneri? Perciò spesso lo straniero, come già avvenuto con i falsi contratti di lavoro al fine di ottenere un permesso di soggiorno, era costretto a sborsare illegalmente somme per poter attestare di avere un’abitazione idonea, mentre quasi sempre era costretto ad abitare in posti per nulla corrispondenti a quanto ufficialmente dichiarato. Con una circolare del 2012, la necessità del “contratto di soggiorno” fornito dal datore di lavoro è stata eliminata.  

La stessa legge prescriveva che le quote non dovessero più essere stabilite ogni anno, ma a discrezione del governo. Infatti, dopo il 2007, sono state sospese e sono rimaste solo quelle relative agli ingressi di lavoratori stagionali, nel settore agricolo (per la raccolta di frutta e ortaggi), in quello turistico e qualche volta per pochissimi ingressi di badanti (ma solo a seguito di una dichiarazione, che chi assume deve fare, di aver cercato senza trovarla una badante italiana). Non era neanche più possibile invitare uno straniero attraverso uno sponsor, il che peraltro era sempre stato di difficile realizzazione. 

Inoltre, quando lo straniero perdeva il lavoro, non poteva restare in Italia legalmente per oltre sei mesi, anche se il permesso di soggiorno fosse scaduto più tardi. In quei sei mesi poteva iscriversi alle liste di collocamento e tentare di trovare un lavoro regolare, dopo di che, se restava, ripiombava nella clandestinità. La carta di soggiorno poteva essere concessa dopo almeno sei anni e non più cinque (tuttavia, in seguito a una sentenza della Corte Europea, sono stati riportati nuovamente a cinque). Si è reso più difficile il ricorso ai ricongiungimenti familiari. Si sancì l’obbligo per gli extracomunitari della foto-segnalazione e di prendere loro le impronte digitali. Lo straniero senza permesso di soggiorno, privo di documenti, veniva portato in un centro di permanenza per 60 giorni (la Turco Napolitano parlava di 30 giorni al massimo), durante i quali si cercava di identificarlo. Se non ci si riusciva, al clandestino veniva intimato mediante

ingiunzione prefettizia di lasciare il territorio entro 3 giorni (prima era entro 15) e se, dopo essere stato espulso, rientrava in Italia senza permesso, commetteva un reato. Nei casi di espulsione erano previsti l’accompagnamento coatto alla frontiera e il trattenimento presso i centri di permanenza temporanea, nonché il carcere per chi non avesse ottemperato al provvedimento di espulsione. Era previsto inoltre il potenziamento dei controlli alle frontiere marine e terrestri. Per chi era accusato di favorire l’immigrazione clandestina, le pene già previste dalle leggi precedenti erano aumentate con la reclusione fino a tre anni e la multa fino a 15.000 euro per ogni persona favorita e con la reclusione da quattro a dodici anni, unita a una multa da 15.000 euro, nell’ipotesi che il favoreggiamento fosse attuato al fine di trarne un profitto economico. 

Pacchetto di Sicurezza Maroni 

Il governo Prodi, nonostante le promesse fatte all’atto dell’insediamento nel 2006, non ha cambiato la legge Bossi-Fini. Dopo il ritorno al governo di Berlusconi nel 2008, sono state approvate due leggi (125/2008 e 94/2009), facenti parte del “pacchetto sicurezza” Maroni, notevolmente peggiorative della stessa Bossi-Fini, che hanno previsto: 

1) il reato penale (di natura contravvenzionale) di «ingresso e permanenza irregolare nel territorio dello Stato», punito con una sanzione pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro (mentre con la Bossi-Fini il reato non veniva commesso fin dal primo ingresso, ma solo in caso di «recidività»); 2) la clandestinità come aggravante di un terzo della pena in caso di qualsiasi reato compiuto; 3) la reclusione fino a 6 anni per falsa dichiarazione di identità resa a pubblico ufficiale; 4) la condanna da 6 mesi a 3 anni per chi affittava un immobile a un cittadino privo di regolare permesso di soggiorno e a volte la requisizione; 5) l’inasprimento delle norme legate al favoreggiamento dell’ingresso irregolare nel nostro territorio; 6) la punizione dei datori di lavoro che si servivano di stranieri senza permesso di soggiorno, senza concedere alcuna possibilità di regolarizzarli; 7) l’obbligo per i medici di segnalare i cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno; 8) l’obbligo per chi effettuava i servizi di money transfer di richiedere a tutti i clienti stranieri il permesso di soggiorno e di conservarne copia per dieci anni, nonché di segnalare all’autorità di pubblica sicurezza chi dovesse rifiutarsi a presentarlo; 9) l’obbligo di esibire il permesso di soggiorno per tutti gli atti di stato civile, comprese le registrazioni di nascite e decessi; 10) l’aumento delle tasse per rinnovare il permesso (fino a 200 euro) e per altri documenti; 11) limitazioni molto rigide per i ricongiungimenti familiari, permessi solo per il coniuge dopo alcuni anni e per i genitori se ultrasessantacinquenni, solo nel caso davvero raro che non avessero altri figli e per i figli minori (mentre un figlio maggiorenne poteva essere accolto solo se affetto da invalidità totale); 12) l’aumento delle tipologie dei reati per cui è prevista l’espulsione immediata; 13) il prolungamento fino a 180 giorni della permanenza nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). 

Mantenere o abolire il reato di “clandestinità”? 

Come abbiamo visto, dal 2009 l’ingresso e il soggiorno di stranieri privi di preventiva autorizzazione è divenuto reato, anche per chi arriva in Italia per la prima volta, o anche solo per chi, una volta scaduto il permesso di soggiorno, vi rimane anziché andarsene immediatamente. Sia nel D. Lgs. 286/98, (art. 13, commi 13 e 13 bis), che nella legge 189/02 (detta Bossi-Fini) veniva definito reato il reingresso clandestino di chi era stato materialmente espulso (o se ne era andato a seguito di espulsione), precisando che non era sufficiente la mera emissione di un decreto di espulsione precedente, ma occorreva che in seguito ci fosse stata la concreta esecuzione dello stesso. 

Da allora, per tutti coloro che ricoprono la funzione di pubblico ufficiale, si è anche configurato l’obbligo di denunciare i clandestini. 

In seguito a vibrate proteste da parte dei medici, per motivi umanitari e ancor prima per evitare il rischio che si diffondessero malattie infettive, è stato in seguito tolto l’obbligo di denunciare lo status di chi si rivolgeva loro perché bisognoso di cure. In ogni caso questa legge, lungi dall’avere avuto un effetto dissuasivo nei confronti di chi intendeva entrare in Italia, ha solo aumentato il tasso di “clandestinità”, per la maggior difficoltà al rinnovo dei permessi di soggiorno e reso ineludibili gli affitti in nero a condizioni e a prezzi peggiorativi, dovendo tener conto del maggior rischio. Ugualmente ha reso ineludibile il lavoro nero in condizioni di ancora maggiore ricattabilità. Indirettamente ha aumentato anche i reati commessi da stranieri che avevano sempre meno da perdere col delinquere e all’inverso niente da guadagnare comportandosi in modo ineccepibile. 

Per quanto riguarda il reato di “immigrazione clandestina” diversi giudici hanno richiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi in merito e vari insigni giuristi hanno espresso molti dubbi sulla sua compatibilità con i principi costituzionali, in quanto il reato si deve configurare come un’azione dannosa che viene compiuta e non come una semplice condizione personale. Tuttavia la Consulta non l’ha dichiarato incostituzionale, anche se con la sentenza 249/2010 ha dichiarato illegittima l’aggravante della clandestinità al fine di comminare una pena maggiore, dichiarando che qualità personali del tutto estranee al reato contestato non possono determinare un diverso trattamento penalistico, in violazione al principio costituzionale di eguaglianza. 

L’introduzione del reato di “clandestinità” fin dal primo ingresso ha creato molti problemi, intasando i tribunali, costretti a sopportare una notevole mole di lavoro e pesanti costi per identificazioni, notifiche, processi, traduzioni, nonché pagamento della parcella degli avvocati, che sono sempre d’ufficio e quindi a carico dello Stato. Questo, soprattutto a causa dei vincoli finanziari imposti dai Trattati Europei, si è tradotto in un notevole storno di uomini e mezzi da altri impegni processuali e finanche nella diminuzione delle risorse disponibili per tutto il resto, compresi i possibili rimpatri coatti. I tribunali sono costretti ad istruire procedimenti del tutto inutili, alla fine dei quali al massimo può essere inflitta la condanna al pagamento di una somma tra i 5.000 e i 10.000 euro, che ovviamente nessun “clandestino” potrà mai pagare, mentre l’espulsione dovrà essere rimandata fino a quando il procedimento giudiziario non sarà terminato. Infatti, nel caso in cui l’accompagnamento coattivo alla frontiera venisse eseguito nelle more del procedimento, il questore lo dovrebbe comunicare al giudice, che emetterebbe sentenza di non luogo a procedere. Ovviamente i procedimenti vengono intrapresi solo quando il giudice non può farne a meno perché, se lo facesse per tutti i “clandestini”, i tribunali sarebbero completamente paralizzati (altro piccolo dettaglio che parrebbe sfuggire a chi invoca di processare i “clandestini” e nello stesso tempo invoca una giustizia più rapida ed efficiente per ogni altro genere di reato). 

Occorre considerare ancora che i giudici hanno maggiori difficoltà a identificare e condannare i veri trafficanti di uomini, dal momento che gli stessi immigrati irregolari, indagati per il reato di “clandestinità”, non possono essere interrogati come persone informate sui fatti, ma solo nella veste di coimputati. E chi viene sentito come imputato può tacere trincerandosi dietro la facoltà di non rispondere oppure depistare le indagini; invece, se viene sentito come persona informata sui fatti, è obbligato a parlare e a dire la verità ed è anche interessato a farlo. 

In sostanza, la norma che istituisce il reato di ingresso clandestino si è dimostrata oltremodo dannosa, inutile e inefficace al fine del proposito dichiarato di contrastarlo. È stata introdotta come bandierina ideologica, senza alcuna giustificazione funzionale né logica. L’effetto deterrente poi è nullo: come si può pensare che qualcuno, che ha passato tante traversie per giungere in Italia (ovverossia in Europa), possa essere spaventato dall’idea di dover subire un processo alla fine del quale potrebbe essere condannato a pagare una multa tra i 5.000 e 10.000 euro, che verosimilmente non pagherà mai? Lo stesso Ministro della Giustizia Orlando, l’8 luglio 2015, in un’audizione al Senato, si è così espresso: «Con la legge delega è stata espressamente prevista la depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina (…) Non solo comporterà un risparmio di risorse giudiziarie e amministrative, ma produrrà effetti positivi per l’efficacia delle indagini in materia di traffico di migranti e favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Questo anche alla luce di un dato empirico, dal momento che l’introduzione del reato di immigrazione clandestina non ha avuto alcuna funzione deterrente». Purtroppo il timore che si scatenasse una campagna di ostilità contro il governo, ispirata da forze politiche inclini ad utilizzare argomenti di demagogia xenofoba per raccogliere facili consensi, ha bloccato la successiva azione governativa rivolta ad utilizzare la delega avuta per eliminare quella fattispecie di reato. Il Ministro Orlando, tornando sul tema il 16 gennaio 2016, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha riconosciuto: «la risposta sul terreno del procedimento penale si è rivelata inutile, inefficace e per alcuni profili dannosa». Eppure la demagogia con cui questo tema viene trattato da gran parte delle forze politiche fa molta presa nell’opinione pubblica, generando idee confuse e alimentando sentimenti xenofobi. Tanto che molti pensano che l’attuale eccezionale ondata migratoria stia avvenendo in gran parte proprio perché questo reato sarebbe stato abolito, mentre invece è tutt’ora vigente. 

La Commissione Europea aveva emanato la direttiva 2008/115 rimpatri, in cui è detto: «Un paese dell’UE deve emettere una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino non comunitario il cui soggiorno nel suo territorio sia irregolare». La Corte Europea di Giustizia, la cui sede è a Lussemburgo, nella sentenza 1 ottobre 2015, Celaj, causa n. C-290/14, ha dichiarato: «l’obiettivo di armonizzare integralmente le norme degli Stati Membri sul soggiorno degli stranieri non vieta, in linea di principio, che il diritto di uno Stato membro qualifichi come reato il reingresso illegale di un cittadino di un paese terzo in violazione di un divieto di ingresso»; tuttavia, riferendosi alla sopraccitata “direttiva rimpatri”, «uno Stato membro non può applicare una disciplina penale idonea a compromettere il conseguimento delle finalità perseguite dalla suddetta direttiva, privando così quest’ultima del suo effetto utile (…). È ben vero che, conformemente alla giurisprudenza della Corte, le norme e le procedure comuni sancite dalla direttiva 2008/115 sarebbero compromesse se lo Stato membro interessato, dopo aver accertato il soggiorno irregolare del cittadini di un paese terzo, anteponesse all’esecuzione della decisione di rimpatrio, o addirittura alla sua stessa adozione, un procedimento penale idoneo a condurre alla reclusione nel corso della procedura di rimpatrio in quanto tale modo di procedere rischierebbe di ritardare l’allontanamento». Nessun buonismo, dunque, ma solo considerazioni di ordine pratico, tanto più che: «si deve dunque considerare (…) che la direttiva non preclude la facoltà per gli Stati membri di prevedere sanzioni penali a carico dei cittadini di Paesi terzi, il cui soggiorno sia irregolare, per i quali l’applicazione della procedura istituita da tale direttiva ha condotto al rimpatrio e che entrano nuovamente nel territorio di uno Stato membro trasgredendo un divieto di ingresso». Perciò la Corte riconosce agli Stati membri dell’UE la facoltà di sanzionare penalmente solo un successivo reingresso in presenza di un provvedimento di espulsione. Forse pensa che una volta che lo straniero, entrato irregolarmente (anche se non per libera scelta, ma perché è l’unico modo possibile), venga informato delle conseguenze di un tentativo successivo, questo di per sé dovrebbe bastare a dissuaderlo dal ritentare? Nei fatti è difficile che questo accada. In ogni caso il governo italiano, costretto a conformarsi alle direttive della CE, ha richiesto e ottenuto la delega per la depenalizzazione dell’ingresso irregolare e poi, preoccupato dall’opinione pubblica aizzata dalla demagogia xenofoba di alcuni partiti dell’opposizione, non è andato avanti restando a metà del guado. Così ha scontentato tutti, opinione pubblica contraria e favorevole, e non ha alleviato i problemi alla magistratura, costretta a continuare ad applicare una norma insensata, fatta solo in nome di un compiacimento ideologico. 

«Cacciare gli immigrati per aiutarli a casa loro»? 

Allo stesso modo quelle stesse forze politiche che amano pescare nel malcontento popolare, approfittando dell’ignoranza e della mala informazione che loro stessi contribuiscono a dispensare a piene mani, insistono nel ribadire la necessità di non accogliere ma di «cacciare gli immigrati», con sconcertante superficialità, senza tener minimamente conto di cosa possa significare fattualmente. Di fronte a persone che attraversano il Mediterraneo, come è possibile pensare di impedire loro di sbarcare? Facendoli annegare? Riportandoli in Paesi che non li riconoscono come propri cittadini e da cui sono semplicemente transitati e che non accettano di accoglierli? O nei Paesi da cui sono scappati a causa della guerra o di una dittatura o della fame? E come si fa a sapere da dove ognuno di loro arriva e perché è scappato, senza fare un’indagine in merito? Per dimostrare una certa apertura mentale, a volte viene anche detto che gli immigrati dovrebbero «essere aiutati a casa loro». Questa è una frase ad effetto che serve forse a scaricare la coscienza di chi la pronuncia, ma non è chiaro cosa possa realmente significare. Si tratterebbe di spendere dei soldi nei loro Paesi, affidandoli a chi? E in quanti Paesi e in che modo? E con quali garanzie? È evidente che sono parole al vento. Siamo sottoposti a vincoli finanziari insostenibili da parte dell’UE e pensiamo di poter spendere una montagna di soldi in tutti i Paesi da dove arrivano gli immigrati in misura tale da indurli a restare? Se non possiamo spendere per le nostre necessità, possiamo pensare di riuscire a risolvere i problemi economici di tutti i Paesi dell’Africa e dell’Asia? È chiaro, inoltre, che occorrerebbe definire degli accordi precisi con i governi di ognuno dei Paesi destinatari degli ipotetici fondi e che questo vorrà avere voce in capitolo sulla gestione di ipotetici finanziamenti (del resto non in tutti i Paesi è facile identificare chi realmente governi in modo più o meno legittimo). Come dovrebbe essere chiaro che, perfino se potessero essere stanziate somme molto ingenti, ben difficilmente queste sarebbero in grado di incidere sullo sviluppo di qualcuno dei Paesi destinatari in modo da ridurne significativamente il tasso di povertà, che è dovuto in massima parte alle diseguaglianze economico- sociali tra i Paesi del mondo e all’interno di ognuno di essi, aspetti che gli aiuti stessi non cambierebbero. Anziché usare vuoti slogan cominciamo a prendere atto che la causa principale dei problemi del sottosviluppo è il modello di sviluppo liberista il cui perpetuarsi viene imposto a tutti i Paesi, con la scusa di aiutarli e che avvantaggia i Paesi forti e le imprese multinazionali. Praticamente, dopo averli depredati delle loro risorse rendendoli dipendenti dagli “aiuti” dell’Occidente, la maggior parte dei Paesi sono stati spinti a indebitarsi nei confronti delle istituzioni finanziarie internazionali (segnatamente il FMI) e man mano a cedere i loro beni e le loro terre più fertili. Nessun aiuto può essere realmente tale se non cambiano i rapporti economici tra i Paesi e se non si capovolgono le politiche attuate nei loro confronti, che a volte giungono a scatenare delle vere e proprie guerre. 

Del resto anche eventuali aiuti allo sviluppo economico che potessero valere per i cosiddetti «immigrati economici», non varrebbero per chi è in fuga da una guerra o da una persecuzione (politica, etnica, religiosa o d’altro genere). Per questi si parla di progettare dei corridoi umanitari, che, nella migliore delle ipotesi, potrebbero coinvolgere un numero limitato di persone di alcuni Paesi sotto i riflettori della cronaca. E in ogni caso, che faremmo con quelli che volessero venire ugualmente? 

Nei fatti l’unica proposta concreta è stata quella di dare aiuti limitati ad alcuni Paesi di transito perché trattengano coloro che vorrebbero partire per l’Europa, anziché spingerli a farlo con la complicità delle mafie locali che si sono lanciate nell’affare, sfruttando i bisogni e la disperazione degli emigranti. Pur di ottenere il risultato di non farli partire, i Paesi europei sono disposti a chiudere gli occhi sui metodi utilizzati, senza sindacare se non corrispondono propriamente a princìpi umanitari. Oppure di finanziare governi spesso dittatoriali perché se li riprendano. Da organizzazioni internazionali come Amnesty e di esponenti della società civile di alcuni Paesi sono partiti appelli a non inviare aiuti a quei governi, come il Burundi, dove è in corso una persecuzione da parte del presidente Nkurunziza di etnia hutu nei confronti dei tutsi, asserendo che tutti gli aiuti dati dall’UE fino alla loro sospensione nel marzo 2016, sia quelli a titolo di sostegno economico, sia quelli di natura umanitaria, sono serviti solo a rafforzare l’operato della feroce dittatura. In alcuni Paesi, come il Gambia, la dittatura instauratasi dopo il colpo di Stato del 1994 ad opera di Yahya Jammeh non è nemmeno ufficialmente riconosciuta come tale, dal momento che il suo governo sanguinario è stato confermato successivamente attraverso elezioni di natura puramente di facciata. Nel 2010 tra l’Italia e il Gambia è stato stipulato, dall’allora ministro Maroni, un primo accordo per frenare l’immigrazione via mare (il Paese si affaccia sull’Oceano Atlantico, ed è situato nella punta più a ovest). Altri accordi sono seguiti nel 2011, nel 2013 e nel 2015. Per rendere più efficaci i controlli, l’Italia ha promesso di inviare anche 50 veicoli per il controllo delle frontiere con il Senegal da cui i richiedenti asilo transitano per raggiungere il Mali, l’Algeria, la Libia e l’Italia. Inoltre come ‘regalo’ affinché accettasse i gambiani espulsi dal nostro paese, l’Italia ha promesso forniture, supporti logistici e corsi di formazione non meglio precisati. A seguito di questi accordi è calato di gran lunga anche il numero delle richieste di asilo accettate ed è aumentato il numero di coloro sbrigativamente etichettati come «migranti economici» –e non certo perché il regime si sia ammorbidito! Oltre a torturare e far sparire gli oppositori politici, il governo islamico del Gambia condanna all’ergastolo gli omosessuali, perseguita i non credenti e considera quelli che vengono rimpatriati colpevoli del grave reato di «essersi resi irreperibili alle autorità». 

Negli ultimi mesi l’UE ha stipulato un accordo con un Paese di transito, la Turchia, chiedendole di costituire un freno a masse di immigrati che tentano di entrare in Europa attraverso la rotta dei Balcani. Il governo di quel Paese ha alzato sempre più la posta fino a ricevere la promessa di un rimborso di sei miliardi (peraltro giudicato insufficiente dal governo turco), di fronte a impegni abbastanza generici nonché difficili da realizzare. Nessuna rilevanza pare abbia avuto la scoperta che questo Paese, già conosciuto come non esattamente un campione nel rispetto dei diritti umani e delle minoranze, ha creato dei campi di detenzione (molto simili a campi di concentramento) dove gli stranieri lavorano con una paga irrilevante ed in condizioni disumane e vengono utilizzati prevalentemente bambini, per il costo ancora minore che garantiscono. Una logica di questo tipo può essere pericolosa perché espone a ricatti perenni: si può utilizzare l’arma dell’invio di immigrati o del loro trattenimento, giocando cinicamente sulla loro pelle, trattandoli alla stregua di ostaggi e sfruttandoli, per ottenere soldi dai Paesi europei, che si dimostrano così spaventati all’idea dell’arrivo di tanti stranieri da preferire il cedimento a ben poco nobili ricatti (e poi si continua a credere al “piano Kalergi”! Su chi sia stato Kalergi si veda il n. 39 di “Indipendenza”). 

Il governo italiano aveva chiesto ed ottenuto dall’UE, non senza fatica, che le somme impegnate per finanziare la Turchia, pur andando di fatto a cumularsi nel debito, potessero essere escluse dal computo del deficit, al fine del rispetto dei parametri imposti per il raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale. 

Giustamente in Italia le opposizioni hanno votato contro l’accordo, anche quelle (come la Lega) che proponevano a parole di «aiutare gli immigrati nei loro Paesi» e non perché preoccupate del fatto che la Turchia non è propriamente il loro Paese d’origine ma perché, votando per dare soldi a Paesi stranieri, potevano perdere consensi. Ugualmente si sono opposti agli accordi sottoscritti per smantellare i dazi alle arance, ai pomodori e all’olio proveniente dai Paesi del Nordafrica. Anche in questo caso penso abbiano fatto bene a votare contro, ma in questo modo si dimostra che lo slogan «aiutiamoli a casa loro?» non ha alcun senso, se non quello di indicare qualcosa di diverso dalla necessità di accoglierli. Se poi quella non è affatto una soluzione praticabile, non ha importanza, l’importante è aver spostato il problema. L’Italia, in realtà, non ha alcun vantaggio in termini di riduzione della spinta migratoria dall’accordo con la Turchia, al contrario vede riaprirsi la rotta libica (insieme a quella greco-albanese) dovuta al blocco effettuato dai Paesi a nord della penisola balcanica. Eppure ha dovuto contribuire lo stesso, pena ritorsioni tra cui la non concessione di quella che viene chiamata (o meglio spacciata) per “flessibilità” sul deficit. Prima della Turchia l’Italia aveva per proprio conto stipulato un accordo con la Libia di Gheddafi, anche in quel caso non andando troppo per il sottile nel giudicare il trattamento riservato agli immigrati trattenuti o riaccolti.  

Fino ad ora, tuttavia, la Turchia ha ricevuto solo una parte di quanto promesso ed è possibile che in seguito agli ultimi avvenimenti successivi al fallito golpe vengano rivisti gli accordi. 

Per quanto riguarda l’espulsione degli immigrati cui non viene riconosciuto il diritto d’asilo, fino ad oggi ogni Paese dell’UE ha stipulato accordi di collaborazione bilaterali con alcuni Stati. L’accordo è necessario ai fini del riconoscimento dei propri cittadini prima ancora della loro riammissione, dal momento che non è possibile rimpatriare qualcuno senza sapere in quale Paese mandarlo. L’Italia finora è riuscita a stringere accordi che ormai durano da molti anni con quattro Paesi, l’Egitto, la Tunisia, il Marocco e la Nigeria cui si aggiunge quello recentissimo con il Pakistan. Questi accordi si basano su aiuti economici e, quando erano previste, anche maggiori quote d’ingresso per motivi di lavoro o di studio riservate per chi proviene da quei Paesi. Nella trasmissione televisiva “Report” è stato detto che la somma base data al Paese con cui si stipula l’accordo sarebbe almeno di 5 milioni di euro. Rimandare nei propri Paesi i cosiddetti immigrati economici considerati “clandestini” ha un costo non indifferente: infatti, a quelli dell’accordo, della permanenza nei CIE e delle attività di investigazione, occorre sommare quelli di ogni viaggio con due poliziotti accompagnatori. È chiaro che Paesi che possono permettersi di utilizzare più risorse finanziarie possono stringere più accordi ed effettuare più rimpatri. L’UE ultimamente ha manifestato l’intenzione di contrattare e stipulare accordi a nome di tutti gli Stati comunitari con i vari Paesi di origine e di transito, per l’identificazione e il rimpatrio degli immigrati “irregolari” verso i primi o il rinvio verso i secondi. I soldi dati a quei Paesi ben difficilmente andranno a migliorare la situazione delle persone rimandate indietro, che o torneranno nel proprio Paese o più spesso in un Paese di transito. In questi ultimi potranno essere messi in una sorta di campi di concentramento a lavorare semigratis. Nei Paesi di origine, invece, ritroveranno la situazione da cui avevano cercato di sfuggire, la fame e la miseria o la dittatura, più o meno feroce. Ma per i Paesi europei va bene pagare chiunque accetti di togliere loro le castagne dal fuoco, liberandoli dall’eccessivo numero di migranti e dalle tensioni sociali che potrebbero creare. Praticamente agiscono nel modo opposto a quel che il cosiddetto “piano Kalergi”, se esistesse, suggerirebbe.

Esistono alternative? 

Ritengo che non si possa aiutare nessun Paese se non liberando noi stessi e appoggiando le lotte di liberazione di altri Paesi dalla schiavitù imposta da organismi finanziari e istituzioni politiche sovranazionali, spesso con la benedizione dei governi “nazionali” collusi con questi e appoggiati (o imposti) dalla borghesia che un tempo veniva definita «compradora». Di certo non «esportando la democrazia» o immaginando fantomatici «piani Marshall» da attuare in loco e men che meno continuando a vendergli armi o attuando sanzioni o embarghi. Né sfruttandone le risorse e inquinando le loro terre (come fa anche l’ENI soprattutto –ma non solo– in Nigeria). Occorre opporsi fermamente a queste pratiche e non continuare ad essere alleati con chi si ostina a perpetuarle. Allo stesso tempo, riconquistata la sovranità, andrebbero proposti accordi commerciali e di assistenza tecnica reciprocamente vantaggiosi, su basi il più possibile paritarie. 

Per quanto riguarda l’emergenza profughi attuale, non è possibile pensare di non accoglierli, perché l’unica alternativa sarebbe quella di respingerli in mare. Si dice che a volte li andiamo a prendere al largo o addirittura abbastanza vicino ai territori libici, da cui partono e questa dovrebbe costituire la prova del fatto che i governi sono complici e promotori delle immigrazioni di massa. Ma se la nostra Marina non li andasse a prendere, viste le condizioni in cui sono fatti partire, i casi che si verificherebbero potrebbero essere solo due: 1) che arriverebbero lo stesso, magari stremati e lasciando qualche cadavere in più nel corso della traversata; 2) che annegherebbero tutti. Alcuni però, per provare a lavarsi la coscienza, si vogliono autoconvincere che gli immigrati, se non pensassero che qualcuno li verrà a salvare, sarebbero disincentivati a partire. Mi sembra che i non pochi naufragi verificatisi possano essere sufficienti a smentire quest’ipotesi o siamo così cinici da accettare continue stragi per avere un campione di verifica ancora più consistente? 

In realtà non è vero che l’Italia (come del resto la Grecia) faccia entrare gli immigrati per propria volontà, o in sintonia con un fantomatico piano Kalergi, ma obtorto collo, perché costretta per motivi geografici (è circondata dal mare) e perché all’interno dell’UE è, per motivi geografici, insieme alla Grecia, il Paese su cui vengono scaricati maggiormente i problemi che gli altri Paesi comunitari non vogliono porsi. Si può forse pensare che Tsipras abbia interesse ad accogliere masse di migranti allo scopo di aumentare ancor di più la disoccupazione per abbassare i salari, quando la Grecia è in una situazione di pre-rivolta proprio per le misure che l’UE lo costringe a deliberare e che lui riesce sempre meno a giustificare? E lo stesso Renzi non vorrebbe fare in modo di dimostrare di essere riuscito a diminuire la disoccupazione, quanto meno di qualche zero virgola? La

politica degli Stati europei che cercano di scaricarsi il problema l’un con l’altro appare la miglior smentita all’idea dell’esistenza di un piano preordinato per far entrare masse di immigrati. Indubbiamente certe quote di immigrati stabilite attraverso una programmazione annuale o anche in una certa misura clandestini da sfruttare possano far comodo ad alcuni Paesi più sviluppati, ma ora, in un periodo di crisi indotta dall’ostinazione di voler salvare la moneta unica, un fenomeno che assume proporzioni sempre più vaste e incontrollabili, può solo aiutare a destabilizzare l’UE e ad alimentare forze scioviniste di stampo xenofobo. Perfino la Germania di Angela Merkel, dopo aver preso la sofferta decisione di aprire le porte ai profughi, peraltro attribuendosi da sola il diritto ad esercitare la prelazione sulla scelta dei Paesi di provenienza degli immigrati, prediligendo i siriani, più acculturati e tra i più occidentalizzati all’interno del mondo musulmano, ha attuato un parziale, ma significativo dietrofront. Infatti, in seguito alle critiche ricevute in patria e alla marea di profughi che si sono riversati in Germania, ha deciso di limitare gli ingressi anche di quelli che avrebbero sicuramente avuto diritto a una misura di protezione umanitaria. Dopo di che ha predisposto un piano per l’integrazione, costituito da corsi di lingua tedesca obbligatori, fin da quando entrano nelle strutture di prima accoglienza, uniti ad eventuali corsi di formazione. Per ricevere un permesso di soggiorno di lunga durata è necessario sostenere un esame di lingua, come accade anche in Italia. A fronte di queste misure positive per l’integrazione, spuntano però i contratti a un euro l’ora, in palese violazione con la misura da poco approvata del salario minimo di 8,5 euro. È sospeso inoltre per tre anni l’obbligo ad assumere prima lavoratori tedeschi o comunitari. È chiaro che queste misure di deroga confliggono oggettivamente con i diritti conquistati dai lavoratori tedeschi. Tuttavia questo non significa che sia in atto un vero e proprio “piano” allo scopo di far venire immigrati per sostituire i lavoratori autoctoni con lavoratori più disponibili a rinunciare a tutti i diritti da utilizzare al fine di abbassare il costo del lavoro, in diretta concorrenza con i tedeschi ed anche con i comunitari, ma solo che le aziende tedesche cerchino di approfittare delle situazioni che si sono create per altre cause, mentre il governo si sforza di dare un colpo al cerchio e un altro alla botte. In questo modo il governo cerca di dimostrare da una parte di essere un esempio da seguire per gli altri Paesi europei, dando accoglienza al fine di evitare la fine di Schengen –considerato un pilastro indispensabile per mantenere in piedi l’UE anche in quanto punto di forza dell’ideale europeista– e dall’altra favorisce le proprie industrie ed evita che gli stranieri disoccupati vadano a incidere troppo pesantemente sul welfare. L’idea è stata in qualche modo ripresa dal candidato del centrodestra a Milano e rivolta specificamente agli immigrati per farli pulire e sistemare i parchi. Si è detto che in questo modo si toglierebbe lavoro agli italiani. In condizioni normali sarebbe così, ma dovendo tener conto del patto di stabilità è più probabile che i giardini

resterebbero sporchi, non potendo assumere regolarmente personale che se ne occupi. Questo non vuol dire che siano da avallare queste forme di sfruttamento. Va compreso che la ricerca esasperata della flessibilità, che nel settore privato è connesso alla ricerca di risparmio sul costo del lavoro appesantito da un’insopportabile tassazione, dovendo tener conto della competizione con gli altri Paesi, nel pubblico è determinato direttamente dai proibitivi vincoli finanziari europei. È necessario capire che non sono gli immigrati ad invaderci e a rovinarci economicamente, ma l’UE con le sue regole e il liberismo economico. Noi, insieme a loro, siamo le vittime di questo sistema invasivo da ogni punto di vista (economico, politico, ideologico), il vero nemico della nostra identità e sovranità. 

Lidia Riboli 
(Indipendenza n. 40 – luglio/agosto 2016)