La dizione «beni comuni» ha avuto una diffusione senza precedenti ed è entrata nel  linguaggio corrente per indicare un bene il cui uso è in qualche modo  indispensabile per soddisfare le esigenze quotidiane dei singoli e delle collettività.  Ma al di là di questo vago significato, dopo circa venti anni di laboriose ricerche,  non ancora si è arrivati a una sua chiara definizione che, secondo alcuni, si  collocherebbe «oltre il pubblico e il privato»: dunque non si sa dove,  confermandosi così il diffuso convincimento che si tratta di un «concetto  inafferrabile» 2

Eppure la necessità di chiarire questo concetto, nell’ambito di una revisione della  disciplina dei «beni pubblici» sancita dal vigente codice civile, è diventata  certamente impellente, specialmente dopo che l’ex Presidente del Consiglio  Giuseppe Conte ha inserito nello Statuto del Movimento Cinque Stelle l’obiettivo  di dar tutela e vita proprio a questo tipo di beni. 

La finalità del presente articolo è proprio quello di dare un contributo alla  soluzione di questo problema, ponendo in massima luce che, per dare effettività e  tutela ai beni comuni, come sono stati percepiti dalla gente, nonché da numerosa  dottrina, non è assolutamente idoneo il “disegno di legge delega” elaborato dalla  Commissione Rodotà (meglio qualificata “Commissione Mastella-Rodotà”, poiché  i suoi membri, i cui pareri prevalsero molto spesso su quelli del Prof. Rodotà,  furono tutti nominati dal Ministro della Giustizia Mastella con decreto ministeriale  del 21 giugno 2007). Questo, nonostante ciò che si afferma nella “Relazione di  accompagnamento” che ripetutamente fa riferimento ai principi costituzionali  (esponendo anche considerazioni pienamente condivisibili), presenta mende di  vario tipo e soprattutto viola in pieno la nostra Costituzione repubblicana e  democratica.  

Per rendersi conto della portata negativa di questo disegno di legge, occorre, a  nostro avviso, partire dalle circostanze in cui si svolsero i lavori della  Commissione. 

A tal proposito è da sottolineare, come si apprende dalla stessa Relazione3 di  accompagnamento al disegno di legge delega, che l’esigenza di «riformare il  contesto giuridico dei beni pubblici» fu fatta presente, nel 2002, da parte dei  professori Sabino Cassese, Antonio Gambaro, Edoardo Reviglio, Ugo Mattei, e, in  particolare dal Prof. Giulio Tremonti, Ministro delle Finanze, al fine di rendere la  disciplina di questi beni (molti dei quali erano stati «privatizzati») compatibile con  la struttura del nuovo “Conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche che era basato sui criteri della contabilità internazionale”, e cioè su «criteri privatistici» e  non più su «criteri pubblicistici», per cui, come agevolmente si comprende, in  questa riforma, si sarebbe dovuto eliminare il riferimento alla «proprietà  pubblica», dando invece risalto alla «proprietà privata». Obiettivo, del resto,  pienamente conseguito nel disegno di legge delega in questione, che ha sancito  l’eliminazione del «demanio» concependolo «non come proprietà demaniale del  Popolo», e quindi inalienabile, inusucapibile e inespropriabile (come oggi  prescrive la Costituzione), ma come oggetto di «proprietà privata», definita  «pubblica», in quanto appartenente a una «pubblica amministrazione». Infatti  l’ordinamento giuridico voluto da Carlo Alberto considerava i «beni pubblici» come appartenenti allo «Stato persona giuridica» e, in pratica, in proprietà del  Sovrano e dei governanti.  

Ciò risulta chiaramente da un regolamento di contabilità pubblica, approvato con  R. D. n. 3074, del 5 maggio 1885, secondo il quale i beni dello Stato (cioè  appartenenti allo Stato persona giuridica) si distinguono in demanio pubblico e  beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello  Stato a «titolo di sovranità» (cioè i beni che, originariamente, servono a rafforzare  la posizione di chi governa) e formano il patrimonio quelli che allo Stato  appartengono a titolo di «proprietà privata» (cioè alla pari di tutti i cittadini). Ed è  da sottolineare che si tratta di una definizione che ripete letteralmente quanto  disponeva l’art. 426 del codice civile del 1865, il quale, come è noto, ricalcava a  sua volta la struttura e la matrice ideologica del Code Civil francese del 1804. 

Ed è opportuno ricordare che il criterio «dell’appartenenza» dei beni demaniali a  chi governa risale alle origini del demanio stesso, che fu creato con un  provvedimento che discendeva dall’alto, cioè dal Sovrano. È quanto si legge nel  “Liber Constitutionum” del Regno di Sicilia, emanato a Melfi, da Federico II, nel  12314, il quale precisa che il «demanio» (termine che proviene dalla parola latina  «dominium», inteso questa volta come «dominio regio»), nacque dalla necessità di  riservare al Sovrano la proprietà (da considerare sempre «in senso privatistico»),  di quei beni di maggiore interesse pubblico, proprio al fine di maggiormente  tutelarne la sovranità. 

In sostanza, siamo di fronte a una “eterogenesi dei fini”, poiché il disegno di legge  in parola, agendo secondo l’ordinamento vigente all’epoca dell’emanazione del  codice civile (cioè sotto l’impero dello Statuto albertino), in realtà, senza che il  lettore se ne accorga, finisce per produrre i suoi effetti sull’ordinamento vigente,  con conseguenze fortemente dirompenti. Infatti l’abolizione del «demanio» non  riguarda più «i beni dello Stato persona giuridica individuale», e quindi i  governanti che tale sovranità esercitano, ma il vigente «Stato comunità», i cui  «beni demaniali» sono funzionali alla vita civile e ordinata di tutti i cittadini. E, al riguardo, è da tener presente che la Costituzione non si limita a stabilire  «l’appartenenza della sovranità» al Popolo, ma prosegue indicando anche i fini  che lo «Stato comunità» deve perseguire, per cui i beni pubblici in questione  servono non solo per garantire la sovranità di questo tipo di Stato, e quindi la sua  identità e la sua esistenza, ma anche per raggiungere detti fini, che sono  chiaramente indicati dal secondo comma dell’art. 3 Cost., secondo il quale «è  compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,  che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno  sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori  all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», nonché dall’art. 4  Cost., secondo il quale «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al  lavoro», allo scopo di consentire a essi «di svolgere un’attività o una funzione che  concorra al progresso materiale e spirituale della società». Insomma, i fini da  perseguire sono: la libertà e l’eguaglianza di tutti i cittadini; la loro effettiva  partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese; la  «effettività del diritto al lavoro»; il diritto di svolgere «un’attività o una funzione  che concorra al progresso materiale e spirituale della società». Ed è in questo  quadro che l’art. 42 Cost. sancisce che la proprietà non è soltanto privata, come  nell’ordinamento voluto dallo Statuto albertino, ma è «pubblica e privata»,  intendendo per pubblica, come subito avvertì Massimo Severo Giannini5, per  l’appunto «la proprietà collettiva demaniale» del Popolo. A questo punto emerge  con grande chiarezza il passo falso compiuto da questo disegno di legge. Esso, pur  riconoscendo lo stretto collegamento esistente tra i beni pubblici e l’esercizio dei  diritti fondamentali, ha tolto al Popolo sovrano i «mezzi economici» che allo stesso  servono per tutelare i «diritti fondamentali» e per perseguire gli altri fini ai quali  abbiamo fatto cenno. Basta riflettere sul fatto che di detti beni pubblici diventano  titolari singole pubbliche amministrazioni o addirittura singoli soggetti privati. 

Un risultato sorprendente e in diretto contrasto con quanto la stessa Relazione di  accompagnamento ai lavori della Commissione aveva affermato in ordine al  perseguimento dei citati «diritti fondamentali» e dello «svolgimento della persona  umana». In effetti risulta estremamente chiaro che detto disegno di legge ha  completamente deragliato dai binari che avrebbe dovuto percorrere, quelli del  vigente ordinamento costituzionale, e si è collocato sui binari di un ordinamento  giuridico di matrice napoleonica, del tutto superato dal nuovo ordinamento previsto  dalla nostra Costituzione, facendo in modo che le sue disposizioni normative  corrispondessero alle idee della vecchia cultura borghese, oggi fatta propria dal  pensiero unico dominante del neoliberismo. 

Insomma questo continuare a parlare di «proprietà pubblica» come «proprietà  privata» della «pubblica amministrazione», anziché come «proprietà collettiva del Popolo», risulta chiaramente come un fuor d’opera. In effetti la «Repubblica», lo  «Stato comunità», previsto dall’art. 1 della Costituzione, è praticamente messo da  parte come se non esistesse, mentre l’elemento costitutivo della Repubblica, cioè il  Popolo, cui appartiene la sovranità, viene spogliato degli strumenti economici a lui  originariamente appartenenti a titolo di sovranità. 

Ed è da sottolineare che viene fuori una «classificazione puramente descrittiva»,  che fa leva sul concetto di appartenenza alla pubblica amministrazione o ai privati,  piuttosto che alla natura dei beni, come si voleva far credere. Infatti, come si legge  nella Relazione, i beni sono distinti in «beni comuni (intendendosi per tali beni «le  cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché  al libero sviluppo della persona»), «beni pubblici e «beni privati», mentre i «beni  pubblici» sono classificati in: beni pubblici «ad appartenenza pubblica  necessaria», beni pubblici «sociali» e beni pubblici «fruttiferi», precisandosi che  «i beni a appartenenza pubblica necessaria» sono «quei beni che soddisfano  interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato  e degli Enti pubblici territoriali»; «i beni sociali» sono quei beni «le cui utilità  essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e  sociali della persona»; «i beni pubblici fruttiferi» sono i beni «che non rientrano  nelle categorie precedenti e sono alienabili e gestibili dai titolari pubblici con  strumenti del diritto privato». A cosa serva questa classificazione è difficile dirlo.  Quello che è certo è che si prendono le mosse dai beni già appartenenti alla  pubblica amministrazione e da questa destinati a determinati fini. Date le  premesse, ci saremmo aspettati una classificazione dei beni in base alla loro  natura, per risalire al loro regime giuridico, per stabilire cioè quali beni dovessero  essere considerati fuori commercio, in quanto proprietà del Popolo, e quali beni in  commercio. Invece ci troviamo di fronte a una classificazione che, in buona  sostanza, prende atto di quanto già deciso dallo Stato, anche in ordine alla  «alienabilità o inalienabilità» dei beni. 

La eterogenesi dei fini, tuttavia, non si ferma qui. Infatti, nel definire «bene  giuridico» la «cosa materiale o immateriale» le cui «utilità» possono essere  «oggetto di diritto», il disegno di legge in questione esclude ancora una volta la  «proprietà collettiva del Popolo» e, in particolare, pone nel nulla il significato da  dare alla dizione «proprietà pubblica», che è espressa nell’art. 42, primo comma,  primo alinea, della Costituzione. 

Non può sfuggire inoltre che la Relazione parla di «titolarità [cioè di proprietà]  diffusa» dei beni pubblici, espressione che non avrebbe senso se non si pensasse,  anche questa volta, alla «proprietà pubblica demaniale» del Popolo, nelle sue  articolazioni territoriali, mentre la Relazione stessa dà al termine «diffusa» l’inconcludente significato di una «proprietà privata, appartenente a singoli  soggetti o a singole amministrazioni pubbliche».

L’eterogenesi dei fini appare ancora nell’affermazione secondo la quale sarebbe  stata «garantita in ogni caso la fruizione collettiva», la quale può esistere solo se si  ammette una «proprietà collettiva» dei beni, e non se si fa riferimento, come si  legge nella Relazione, ai beni in proprietà privata di singoli individui o di  pubbliche amministrazioni. 

Né risponde a verità che sarebbe stata adottata «una disciplina particolarmente  garantista, idonea a nobilitare (i beni comuni) e a rafforzare la (loro) tutela»,  poiché si è escluso, in modo eclatante, che l’azione di restituzione o di risarcimento  del danno possa essere esercitata dai cittadini, singoli o associati, considerati, ai  sensi dell’art. 2 della Costituzione, come parti del Popolo, affermandosi che dette  azioni spettano allo Stato pubblica amministrazione, cioè a un singolo soggetto  pubblico, secondo quanto prescrive il ricordato Statuto albertino che, come si è  ripetuto, assegna la sovranità allo Stato persona giuridica. 

Si potrebbe andare avanti nell’annoverare le molteplici contraddizioni e errori  riscontrabili in questa proposta di legge delega, ma si ritiene di aver detto  abbastanza, per far capire che non è possibile parlare di beni comuni, se si elimina  la «proprietà collettiva demaniale» del Popolo sovrano e si fa ricorso, violando la  Costituzione, alla sola nozione della «proprietà privata». 

Ben diversa dovrebbe essere la riconsiderazione della disciplina dei beni pubblici,  se davvero si tenessero presenti i principi e le norme della nostra Costituzione. Innanzitutto, c’è da precisare che la definizione di «bene in senso giuridico» deve  essere tale da comprendere, oltre ai beni che possono essere oggetto di diritti  individuali, anche i beni che possono essere oggetto di diritti collettivi, e pertanto  occorre aggiungere alla definizione di cui al vigente art. 810 del codice civile  anche il riferimento ai beni che sono oggetto di «tutela giuridica». Si pensi alla  biosfera, agli ecosistemi, alla comunità biotica, ecc., i quali sono certamente beni,  ma non rientrano affatto in detta definizione. Occorre poi, ovviamente, far  riferimento non solo alle cose materiali, ma anche alle cose immateriali, tra le quali  rientrano i servizi, le servitù pubbliche, e così via dicendo. 

A questo punto, la cosa più importante da porre in evidenza è che la Costituzione,  nel sancire il passaggio dallo Stato persona allo Stato comunità, non solo ha  dichiarato, all’art. 1 Cost., che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul  lavoro» e che «la sovranità appartiene al Popolo», ma anche chiaramente  precisato, nel descrivere «l’Ordinamento della Repubblica», cioè dello «Stato  comunità» (artt. 55 ss.), che fanno parte di quest’ultimo: a) il Parlamento, b) il  Presidente della Repubblica, c) il Governo e la Pubblica amministrazione, d) la  Magistratura, e) le Regioni, le Province e i Comuni, f) la Corte costituzionale. Ed è  estremamente ovvio che agli istituti appena elencati non può darsi altro nome se  non quello di «Organi» della Repubblica. Questo, a nostro avviso, risulta da una lettura non preconcetta delle disposizioni costituzionali. Del resto quasi tutti gli  autori identificano lo «Stato comunità» con lo «Stato ordinamento», in tal modo  implicitamente riconoscendo che tutti gli istituti appena elencati non possono  essere altrimenti denominati se non «Organi» della Repubblica o dello Stato  comunità che dir si voglia. 

Sennonché, non si capisce bene per quale ragione, la dottrina6 ritiene, di solito, che  possono essere definiti «Organi» dello Stato comunità soltanto «gli organi che  assolvono funzioni obiettive e neutrali, quali la funzione costituente, quella  legislativa, quella giurisdizionale, quella del pubblico ministero, o assolvano altre  funzioni di direzione suprema dello Stato (funzioni di governo), oppure espletano  talune funzioni ausiliarie (di consiglio o di controllo) in veste obiettiva e  neutrale»7. Insomma, quello che è escluso è, in pratica, la «pubblica  amministrazione», che persegue interessi pubblici concreti. A nostro sommesso  avviso, questa esclusione non ha ragione di esistere e si spiega solo con il tentativo  di far sopravvivere, come autonomo soggetto giuridico, lo Stato amministrazione,  cioè lo Stato persona giuridica, che il Sandulli ama denominare «Stato apparato».  Sembra proprio che si tratti, più che di una questione di carattere propriamente  giuridico, di una necessità, si direbbe psicologica, di non porre in secondo piano  una nozione di Stato sulla quale si sono affaticati per secoli generazioni di giuristi,  filosofi e politologi. Ma dal punto di vista della logica giuridica, e soprattutto alla  luce dei principi costituzionali, si tratta invero di un gravissimo errore, foriero di  infinite complicazioni, che invece diventano tutte superabili se si accetta che la  «pubblica amministrazione», e quindi lo «Stato persona», sopravvive  nell’ordinamento costituzionale come «Organo», sia pur dotato di soggettività  giuridica, dello «Stato comunità». 

Alla luce di quanto appena detto, si può ben comprendere la portata  dell’affermazione di cui all’articolo 42, primo comma, primo alinea, secondo la  quale la «proprietà» non è più quella alla quale faceva riferimento lo Statuto  albertino e, di conseguenza, il nostro codice civile, e cioè soltanto «privata», ma è  «pubblica e privata». Una volta stabilito che la «Repubblica» è uno «Stato  comunità», è in ultima analisi il «Popolo sovrano», ne consegue che la proprietà di  quest’ultimo, che non è un «soggetto singolo» come lo «Stato persona giuridica»,  ma un «soggetto plurimo», non può che essere «pubblica» e cioè, come avvertì  Massimo Severo Giannini, «proprietà collettiva» o «comune» che dir si voglia. E  si tratta, ovviamente, di una «proprietà» di tutti, e quindi inalienabile,  inusucapibile e inespropriabile, poiché è chiaro che un bene che già appartiene a  tutti non può essere alienato a singoli. Per cui la definizione appena data, sempre  seguendo Giannini, va completata con l’aggiunta della parola «demaniale».  Insomma la «proprietà pubblica» è la «proprietà collettiva demaniale» del Popolo sovrano. E se si pensa che alle origini, come ha da tempo dimostrato il Niebuhr8,  l’unica forma di proprietà conosciuta dai giureconsulti romani era soltanto la  «proprietà pubblica» del Popolo, e che la «proprietà privata» si è formata per  successive «cessioni» ai singoli da parte dell’intero Popolo, non dovrebbe essere  difficile capire che la nostra Costituzione, forte dell’esperienza romanistica (tra i  costituenti c’era l’illustre romanista Giorgio La Pira), è stata capace di dare  amplissimo respiro alle esigenze del Popolo, proprio creando la nozione di  «proprietà pubblica» in contrapposizione a «proprietà privata». 

E, a ben vedere, è proprio la permanenza nell’ordinamento costituzionale dello  Stato persona come «Organo» dello Stato comunità, che consente di dar vita e  sostanza alla «proprietà pubblica». La «proprietà pubblica», intesa correttamente  come «proprietà collettiva demaniale», non può che essere gestita dallo «Stato  persona» cioè, in ultima analisi, dai «pubblici uffici che devono essere organizzati  secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e  l’imparzialità dell’amministrazione» (art. 97 Cost.). E non è tutto. Occorre che a  tale gestione concorrano liberamente i cittadini, singoli o associati, in virtù del loro  «diritto fondamentale» alla «partecipazione dell’organizzazione politica,  economica e sociale del Paese» (art. 3, comma 2, Cost.).  

La «proprietà privata», come ci aiuta a capire il seguito del primo alinea dell’art.  42 Cost. «appartiene» invece «allo Stato (persona), a enti o a privati», se e in  quanto si tratti di «beni economici». E anche in questo secondo caso, quando si  tratta di soggetti pubblici, è assicurato ai cittadini il loro diritto di partecipazione  alle scelte della pubblica amministrazione.  

E qui viene in evidenza la distinzione gaiana tra «beni fuori commercio» e «beni in  commercio». Appare chiaro, dopo quanto detto, che «fuori commercio» sono i beni  che appartengono a tutti e sono oggetto di «proprietà collettiva demaniale»,  mentre i beni in commercio sono tutti gli altri beni non necessari per l’esistenza e  la vita del Popolo (art. 36 Cost.). Tali beni sono definiti «commerciabili» o, come  acutamente dispone il citato articolo 42 Cost., «economici», per il semplice fatto  che i «beni fuori commercio», essendo fuori mercato, non possono avere una  «valutazione economica», una valutazione che deriva dallo «scambio», mentre  quelli in commercio hanno sempre un loro «prezzo», determinato dalla legge della  domanda e dell’offerta.  

Alla luce di quanto appena detto, appare evidente che «l’originaria appartenenza» di tutti i beni (in sostanza il «territorio» e quanto la natura e gli uomini sul  territorio producono) proietta i suoi effetti anche sulla proprietà privata,  mantenendo vivo l’obbligo dei privati di rispettare gli interessi e i diritti che tutti i  cittadini conservano su detti beni9. Si ricordi, innanzitutto, che la «proprietà  privata è riconosciuta e garantita dalla legge, allo scopo di assicurarne la funzione sociale», per cui, se tale funzione viene meno, viene meno anche la tutela  del diritto di proprietà, e il bene, come avviene per i «beni abbandonati», torna là  da dove era venuto, cioè nella «proprietà pubblica» del popolo e, quindi, dello  Stato comunità. E si ricordi ancora che, secondo l’art. 41 della Costituzione,  «l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con  l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità  umana». Si tratta di principi imperativi di ordine pubblico economico, la cui  violazione comporta, ai sensi dell’art. 1418 del codice civile, la dichiarazione della  «nullità» dell’atto, senza limiti di tempo. 

Una proiezione del’originaria «proprietà pubblica» del Popolo deve poi rinvenirsi  nei «vincoli» posti a carico dell’utilizzo da parte dei privati proprietari di quei beni  che presentano caratteri di preminente interesse pubblico. Si tratta dei vincoli  urbanistici, ambientali, paesaggistici, di sicurezza, e così via dicendo. 

Alla luce di quanto appena esposto, dovrebbe risultare evidente che una rilettura in  senso costituzionalmente orientata delle norme civilistiche sui beni pubblici,  dovrebbe comportare una nuova definizione di «proprietà privata» e una nuova  definizione di «demanio», eliminando la spuria categoria del cosiddetto  «patrimonio indisponibile», per arrivare ad una credibile nozione ermeneutica dei  «beni comuni» e della loro tutela. 

Quanto alla nuova, impellente, definizione della «proprietà privata», l’attuale art.  832 del codice civile, secondo il quale «il proprietario gode e dispone della cosa in  modo pieno e esclusivo», dovrebbe essere conformato alla Costituzione e recare la  seguente definizione: «il proprietario gode della cosa, assicurandone la sua  funzione sociale. Dispone della cosa in modo da non contrastare l’utilità pubblica  e non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Una  definizione di questo genere agevolerebbe senza dubbio il recupero di quei beni  pubblici che sono stati «privatizzati» e sottratti fraudolentemente alla proprietà del  Popolo, per cederli nelle mani di speculatori italiani, e soprattutto stranieri, a danno  di tutti i cittadini e, in genere, dell’economia nazionale. 

Quanto alla nuova definizione del «demanio», è evidente che occorre rinunciare a  una elencazione tassonomica e ricorrere a una definizione ermeneutica, che indichi  i «criteri di individuazione» dei beni demaniali, piuttosto che una loro elencazione,  la quale è di fatto impossibile. In questa prospettiva occorre tener presente il  carattere dinamico della nostra Costituzione, il cui fine, come si è già sottolineato,  è quello del libero svolgimento della persona, la sua partecipazione alla vita  pubblica, l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, l’esercizio dei diritti fondamentali  (art. 3, comma 2, Cost.), nonché il progresso materiale e spirituale della società  (art. 4, comma 2, Cost.). Appare allora evidente che una definizione dei criteri di  individuazione dei beni in proprietà pubblica dovrebbe far riferimento ai beni che  per le loro caratteristiche sono in grado di garantire non solo la «sovranità» dello Stato comunità, e quindi la sua «esistenza» e la sua «identità»10, ma anche il  perseguimento di detti fini, e soprattutto l’esercizio dei diritti fondamentali. 

In questo quadro appare evidente che certamente fanno parte del demanio,  costituzionalmente inteso, la biosfera, il territorio, l’ambiente, l’ecosistema, i beni  paesaggistici e storici, i limiti posti alle proprietà private a tutela del paesaggio,  dell’ambiente, dei centri storici, ecc., il demanio naturale di cui all’art. 822 del  codice civile (unitamente a quelli della stessa natura collocati nel secondo comma  dell’art. 826 dello stesso codice), nonché i beni che, ai sensi dell’art. 43 della  Costituzione, dovrebbero essere in mano pubblica, e cioè le industrie strategiche, i  servizi pubblici essenziali, le fonti di energia e le situazioni di monopolio. 

La disciplina dei beni pubblici in proprietà collettiva demaniale dovrebbe inoltre  sancire non solo la «inalienabilità, inusucapibilità e inespropriabilità», a suo  tempo prevista dal codice civile per i beni demaniali di antica memoria, ma anche  la loro «non sdemaniabilità», trattandosi di beni la cui funzione, come si è più  volte ripetuto, è quella di salvaguardare la stessa identità e esistenza dello Stato  comunità, nonché l’esercizio dei diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo. 

Quanto alla tutela dei beni di cui si parla, è ovvio che i primi strumenti sono nelle  mani del governo e della pubblica amministrazione, i quali possono far ricorso al  cosiddetto “golden power”, al potere cioè di porre nel nulla gli atti contrari  all’utilità pubblica, nonché alla «nazionalizzazione» delle industrie strategiche, le  quali non sono affatto vietate dai Trattati europei, come sovente erroneamente si  crede, ma sono la via maestra per la ricostituzione del nostro «patrimonio  pubblico» ignobilmente ceduto a terzi mediante le micidiali «privatizzazioni». È  inoltre da tener presente, come del resto si è già detto, che, in base al combinato  disposto degli articoli 2, commi 1 e 2; 3, comma 2; 4, comma 2; 118, comma 4,  anche i cittadini, singoli o associati, possono agire davanti al giudice, in via  sussidiaria, come «parti della Comunità», e chiedere o la restituzione del bene,  oltre il risarcimento del danno, o la inibizione di turbative al loro godimento.  Questa, come agevolmente si nota, è certamente una tutela «particolarmente  garantista e rafforzata», molto diversa da quella, molto parziale, prevista dalla  ricordata delibera della Commissione Mastella-Rodotà. 

A questo punto appare fin troppo evidente che la nozione di «beni comuni», se a  essa si vuol dare il contenuto che la speculazione dottrinaria degli ultimi decenni  ha voluto loro attribuire, viene a coincidere perfettamente con la nozione dei «beni  pubblici» del Popolo sovrano. Si potrebbe dire che «i beni pubblici o comuni» sono  quei beni che assicurano l’esistenza e l’identità degli elementi costitutivi dello  Stato comunità, e cioè del «Popolo» e del «territorio», nonché l’esercizio da parte  di tutti i cittadini dei «diritti fondamentali». 

È opportuno, tuttavia, anche specificare che, nell’ambito dei «beni pubblici o comuni», è possibile individuare una ristretta categoria di beni per i quali, più che  mai, è importante la «partecipazione» dei cittadini. Si tratta di beni per il cui  «uso»particolarmente alto è l’interesse di «singole comunità». Ciò si è verificato  per l’utilizzo degli spazi pubblici, delle zone verdi, dei beni abbandonati e  soprattutto per le servitù pubbliche e gli usi civici e collettivi, urbani e rurali.  D’altro canto non può dimenticarsi che gran parte delle teorizzazioni sui beni  comuni, a cominciare da quelle del premio nobel Elinor Ostrom11, hanno  riguardato l’attività delle persone in relazione a quei beni per i quali risulti  opportuno, non l’intervento dello Stato, ma quello di singole collettività,  costituendo i cosiddetti «commons». 

È da sottolineare, comunque, che, in casi del genere, è possibile fare un discorso  che riconosca alle «collettività» soltanto la «gestione» dei beni di cui si parla, ma  non la «loro proprietà», la quale, per i motivi ai quali si è fatto riferimento, non  può che appartenere al Popolo, considerato nelle sue diverse articolazioni  territoriali (art. 114 Cost.). Le proprietà collettive, come gli usi civici, le  magnifiche regole, le comunanze emiliane, e così via dicendo, sono retaggi di un  passato, quando tutto il mondo era costituito da un villaggio, ma ben diversa è la  loro posizione in un’epoca in cui tutto il mondo è diventato un villaggio12. Parlare  di «domini collettivi», come fa la legge 20 novembre 2017, n. 168, ha senso solo  perché serve a far sì che determinate zone conservino la loro destinazione agricola  o forestale, ma non per il fatto che i discendenti degli antichi coltivatori di quelle  terre siano considerati comproprietari di esse. Infatti non è rara l’ipotesi che questi  terreni siano gestiti da SPA, che li fanno coltivare da terzi, e poi pagano  annualmente ai cosiddetti «proprietari collettivi» delle somme più o meno  corrispondenti a determinate quote del raccolto di funghi, castagne o semplici  legnami. Non è chi non veda che una situazione del genere si configura più sotto  l’aspetto di un privilegio, che non di un reale diritto. 

Dopo quanto abbiamo detto, ci sembra che il lungo discorso su cosa siano i beni  comuni viene definitivamente a concludersi. È inutile cercare varie definizioni e  creare vaghe categorie «oltre il pubblico e il privato». La realtà dell’ordinamento  costituzionale vigente è chiara e definita: i beni o sono in «proprietà privata», o  sono in «proprietà pubblica» (art. 42 Cost.) e, in uno Stato comunità, la «proprietà  pubblica» coincide perfettamente con la «proprietà comune», che spetta al Popolo  a titolo di sovranità. La verità era là, nella lettura non preconcetta degli articoli 1 e  42 della Costituzione, e le abbiamo girato intorno per tanti anni senza accorgerci,  mentre non sono stati pochi gli illustri giuristi che, anziché leggere il codice civile  alla luce della Costituzione, hanno letto quest’ultima alla luce delle norme del  codice civile, emanato, come tutti sanno, sotto l’impero dello Statuto albertino. 

Questa conclusione è di estrema importanza. Infatti oggi la «proprietà comune»

del Popolo, i cosiddetti «beni comuni», costituiti principalmente, come si è  accennato, dai beni artistici e storici, dal paesaggio (art. 9 Cost.), nonché dalle  industrie strategiche, dai servizi pubblici essenziali, dalle fonti di energia e dalle  situazioni di monopolio (art. 43 Cost.), una volta quasi sempre appartenenti allo  Stato o a Enti pubblici territoriali, sono stati cinicamente «privatizzati», si è fatto in  modo cioè che, attraverso la fraudolenta trasformazione dell’Ente pubblico in una  SPA, essi passassero dalla «proprietà comune» del Popolo sovrano a lestofanti di  ogni genere, oltre che a multinazionali e ad operatori finanziari di varia  estrazione13. Il refrain «privato è bello», «meno Stato e più privato», non ha tolto  la ricchezza nazionale a uno Stato persona giuridica, considerato come un terzo  soggetto rispetto ai cittadini, ma al Popolo intero, che è elemento strutturale e  essenziale dello Stato comunità. I licenziamenti sono sempre più frequenti, la vita  dei lavoratori è considerata di nessun valore rispetto alla prospettiva di guadagno  del datore di lavoro, che apre e chiude le fabbriche a proprio piacimento, oppure le  delocalizza, o addirittura ne provoca il fallimento, gettando sul lastrico intere  famiglie e facendo crollare l’economia nazionale. La forbice tra ricchi e poveri si è  spaventosamente allargata14 e i poveri assoluti hanno raggiunto i sei milioni di  persone, mentre i poveri in povertà gravissima hanno superato i dieci milioni. E  questo perché, come detto, l’intero patrimonio della Nazione è stato  maledettamente privatizzato. È ora che il Popolo sovrano, spogliato del suo  «patrimonio comune», faccia sentire forte la sua voce, ricordando che tutti i  governi, succedutisi dall’assassinio di Moro in poi, hanno sempre seguito il  pensiero neoliberista, tagliando ramo per ramo tutta la struttura dello Stato  comunitario e democratico. Chi ha sbagliato paghi. E tutti sappiano che l’attuale  sistema economico predatorio, cinico, illecito e incostituzionale, che ci ha ridotto  alla miseria, deve essere abbattuto e che, come previsto dal titolo terzo della Parte  prima della Costituzione, è da ritenere legittimo soltanto un sistema economico di stampo keynesiano, che produca lavoro e ricchezza e non disoccupazione e miseria  come quello attualmente seguito. 

Siamo stati derubati del nostro «patrimonio comune», costituito da «beni comuni» e in «proprietà pubblica» di tutti i cittadini a titolo di sovranità, ed è ora di  riprenderci tutto quello che ci è stato illecitamente tolto15. La Costituzione è dalla  nostra parte. È l’ultima vera arma che abbiamo, e le sue molteplici violazioni, da  parte di politici traditori della Patria, non hanno scalfito la sua esistenza e il suo  vigore, essendo stata confermata plebiscitariamente dal referendum sull’acqua del  2011 e dal referendum sulla “deforma renziana” del 2016. E, lo si ricordi, coloro  che professano le idee neoliberiste, che arricchiscono i ricchi e impoveriscono i  poveri, non sono degni di governare l’Italia. 

Paolo Maddalena (vicepresidente emerito della Corte Costituzionale e presidente dell’Associazione “Attuare la Costituzione”). 
(Indipendenza n. 53 – novembre/dicembre 2022) 

1. Relazione («La nozione di “beni comuni”, nel contesto di una revisione  costituzionale degli assetti proprietari previsti dal codice civile») da me svolta, in  data 7 luglio 2021, all’interno del Seminario sui beni comuni, organizzato dal  Dipartimento ionico dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”. Fondamento  di tale relazione è stato il mio ultimo libro “La rivoluzione costituzionale. Alla  riconquista della proprietà pubblica”, Ed. Diarkos, 2020. Di grande aiuto mi è stato  l’apporto tratto dalla lettura dell’articolo di Salvatore Settis “A titolo di sovranità”,  in Leone Maddalena Montanari Settis, Ed. Einaudi, 2013; del libro dello stesso  Autore, “Paesaggio, Costituzione, Cemento”, Ed. Einaudi, 2010; del libro di  Tomaso Montanari, “Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la  crisi che verrà”, Ed. Marco Vigevani e associati, 2014 e del libro di Nicola  Capone, “Lo spazio e la norma”, Ed. Ombre Corte, 2020.  L’articolo [nota di “Indipendenza”] è stato pubblicato anche dal quotidiano  elettronico “key4biz”. 

2. Il Rodotà avverte che «l’attenzione rivolta ai beni comuni non si risolve tutta  nella costruzione di una nuova categoria di beni», S. Rodotà, “Il terribile diritto”,  Ed. il Mulino, 2013, pp. 464 ss. 

3. In Atti del Ministero della giustizia del 15 febbraio 2008. 

4. Sull’argomento, vedi: P. Maddalena, “Il territorio bene comune degli Italiani”,  Ed. Donzelli, Roma, 2014, p. 56 s. 

5. M.S. Giannini, “I beni pubblici”, Ed. Bulzoni, 1971, rist. 1981, p. 47.

6. A.M. Sandulli, “Manuale di diritto amministrativo”, Ed. Giuffrè, 1969, p. 5,

7. A.M. Sandulli, o. c. l. c. 

8. B. G. Niebuhr, “Romische Geschichte”, Berlin, 1811, I, pp 245 ss.

9. Carl Schmitt, “Il nomos della terra”, Ed. Adelphi, 2011, p. 24, afferma che «ogni  occupazione di terra crea sempre, all’interno, una sorta di superproprietà della  comunità nel suo insieme, anche se la ripartizione successiva non si arresta alla  semplice proprietà comunitaria e riconosce la proprietà privata, pienamente  libera del singolo». 

10. L’identità dello Stato comunità è garantita dalla tutela dei beni artistici e  storici. Vedi Emanuele Petracca, “Una identità in vendita”, Ed. Primiceri, 2021.

11. E. Ostrom, “Governing the Commons: The Evolution of Institutions for  Collective Action”, Cambridge University Press, 1990. Traduzione italiana:  “Governare i beni collettivi”, Marsilio, Venezia, 2006. 

12. P. Grossi, “Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria”. Ed. Giuffré, 1977.

13. M. Mazzuccato e M. Jacobs, “Ripensare il capitalismo”, Ed. Laterza, 2021.

14. Joseph E. Stiglitz, “La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per  sconfiggerla”, Ed. Einaudi, 2016. 

15. P. Ferrero, “La truffa del debito”, Ed. Derivapprodi, 2014.