Due dati su tutti, per una fotografia sociale dell’Italia. 1. Secondo l’Istat, nel 2016, un italiano su sei viveva in condizioni di povertà. Il triplo rispetto a dieci anni fa. In crescita la stima sulle persone a rischio povertà o esclusione sociale. Il Censis, nel suo rapporto annuale, tra ‘assoluti’ (4,7) e ‘nuovi’, parla di oltre 13 milioni di poveri. 2. Istat, Inps, Inail, Anpal e ministero del lavoro rilevano che dal 2015 la precarietà è aumentata e che le condizioni sono peggiorate. Insomma, come era prevedibile, il Jobs act si configura a tutele decrescenti e l’essere conteggiati nel novero degli occupati, per lavori anche di qualche ora a settimana, serve a incrementare i posti di lavoro per le statistiche e a dare un’aurea di concretezza al millantatore di turno. Si tratta di indicatori significativi (altro si potrebbe aggiungere) che qualificano come inadeguati ed illegittimi i governi contoterzisti di questo Paese ed il loro referente sovraordinato, l’Unione Europea (UE). 

Siamo un Paese in declino e pur tuttavia quel che sembriamo non sapere, è come uscirne. Non manca una consistente e crescente parte di popolazione che, disillusa dalla UE, chiede protezione statale, diritti sociali, un ben diverso indirizzo politico. Questa domanda, confusa e alla ricerca di risposte, esiste da tempo (nel 2013 ripose le sue aspettative nel M5S) al punto che oggi pressoché tutti i partiti criticano i Trattati e chiedono revisioni. Attenzione: chi le propone inganna, perché i Trattati sono modificabili solo all’unanimità e ci sono Paesi, Germania in primis, che, traendo una rendita politica ed economica dal combinato UE-euro, non hanno la benché minima intenzione di rivedere alcunché di sostanziale come l’obbligo alle politiche di austerità, il divieto della piena capacità di decisione ed intervento dello Stato (ad es. a sostegno delle attività produttive nazionali in sofferenza), la circolazione incontrollata di merci e capitali, lo smantellamento dei servizi pubblici, eccetera. L’Italia, come altri Stati della UE, è priva di autonomia decisionale ed obbligata ad eseguire le direttive della Troika (UE-BCE-FMI), qualcosa di non assolutamente rivedibile nella UE. 

Quelle del 2018 potrebbero essere elezioni di transizione, se non scaturirà un esecutivo stabile. Sia pur con numeri differenti, non sono più due, ma tre i poli candidati a pesare maggiormente, e potrebbero essere stati fatti male i conti con il meccanismo dell’uninominale, pensato dai promotori per bipolarizzare al massimo il consenso elettorale a scapito del M5S. Questo partito, pur ambiguo sui nodi di fondo di cui sopra, è per adesso contenitore di una parte di questa indignazione popolare e per questo, oltre che per non dare piene garanzie di affidabilità, è malvisto dai poteri forti. Una sua ascesa al governo romperebbe le ambiguità, obbligandolo a delle scelte. Con la UE le mezze misure non esistono. 

Il referente ideale di certi poteri sarebbe ancora il PD, ma la figura smart di Renzi, che pure aveva alimentato aspettative, si è logorata in breve tempo per il suo protagonismo ed il suo essere divisivo, e poi per la sconfitta al referendum costituzionale, in buona parte un voto sulla sua figura e sul suo operato. Questo non lo rende più utile… 

Chi è fuoriuscito dal PD lo ha fatto non per una visione politica alternativa, ma per essere stato marginalizzato nel partito, ed ora punta ad una propria affermazione e ad una sconfitta di Renzi per tentare di riprendere il partito o quantomeno, rientrando in parlamento e probabilmente essendo indispensabili come numero di parlamentari, per contrattare da posizioni di forza posti nel possibile governo. Per le due principali anime del centrosinistra (PD e Liberi e Uguali) questa tornata elettorale serve per contarsi confidando l’uno nella sconfitta dell’altro. 

Per le centrali euroatlantiche questo voto saggerà la consistenza anche della lista guidata da Grasso. La lista che porta il nome del presidente del Senato vuol far rientrare in Parlamento un pezzo della nomenclatura del PD fatto fuori da Renzi. Le prime uscite pubbliche del nuovo soggetto politico, con Grasso sotto i riflettori, hanno già mostrato tutti i limiti suoi e dell’operazione. Innanzitutto il suo profilo così marcatamente istituzionale lo rende distante da quella parte del Paese che non vota, e dai giovani. Non è poi detto che eserciti un ascendente sullo stesso elettorato del PD. È apparso poco abituato alla comunicazione, senza scioltezza di linguaggio. Comunque, a dettare la linea sono i D’Alema, i Bersani, etc., figure che hanno condiviso decenni di politiche europeiste e sono corresponsabili degli esiti devastanti che hanno prodotto nel Paese. 

È evidente l’ostilità nei confronti di Renzi a livello massmediatico, e per certi poteri l’ideale sarebbe un PD senza Renzi. PD che rischia davvero non una semplice sconfitta, bensì un’autentica disfatta. Se il partito di Renzi dovesse sempre più essere percepito tra gli elettori, nei prossimi mesi, come battuto in partenza, il M5S potrebbe beneficiarne nel voto assumendo il ruolo dell’alternativa alle destre. È un prendere tempo da parte dei poteri forti che dà anche il segno del non sapere bene che fare, chi individuare come referente. Specularmente, la coalizione di destra appare solida in vista della scadenza elettorale, ma predisposta a dividersi dopo il voto. Anch’essa, peraltro, ha una storia ed una propensione politica al perseguimento di politiche neoliberiste. Precedenti esperienze governative hanno visto partecipi, non pochi anche da protagonisti, nomenclature del centrodestra di oggi, quand’anche allora in formazioni nominalmente diverse. In tale ottica, come da dichiarazioni e convegni indicativi del programma che sarà, si sta confermando, al di là –per taluni– di qualche frase sociale roboante, un’acquiescenza sostanziale ed una rinnovata non alterità all’impianto neoliberista e alle direttive europee.

A sinistra del PD e della lista Grasso, sono in corso tentativi di dar vita a liste alternative. È tutto un richiamarsi all’unità, senza considerare che questa, perché possa avere spessore e durata, va costruita sulla base di una comunanza di intenti, di analisi, di strategia. Ci pare non ben focalizzato lo snodo fondamentale per politiche sociali avanzate, cioè la liberazione dalla gabbia UE-euro e la (ri)conquista di una dimensione sovrana nazionale e statuale, i più ancora perdendosi in fumose ipotesi di negoziazioni per non spaventare la gente. È un ripetere (come in quella parte del M5S sensibile al problema) che questa UE non va bene ma che, se si modificasse qua o là, allora quella UE sarebbe perfetta. A integrazione di quanto detto sopra sull’immodificabilità salvo (l’impossibile) unanimità degli Stati membri, si presuppone l’esistenza di un’entità “UE” perfetta di cui finora, per misteriose ragioni, si sia avuto un’applicazione imperfetta e che, con le opportune correzioni, si possa ottenere la vera UE sognata dal ‘padre nobile’, Altiero Spinelli. Se avessero voluto una UE diversa l’avrebbero fatta. Se c’è questa UE è perché questa UE volevano. Intanto, con quelle posizioni, si è utilissimi, forse conniventi con le élite, perché si sposta nel lungo periodo il raggiungimento di scopi sempre ostentati e mai conseguibili. 

“Indipendenza” continuerà a lavorare fra le pieghe della società sul piano teorico e dell’azione, per seminare e creare aggregazioni territoriali.

Indipendenza
(n. 43 – novembre/dicembre 2017)